Sul numero di "Impresa" di Giugno Alessandro Cravera, nella sua rubrica Back to Basics, commenta un libro di J.P.Womack sul “Lean Thinking”.
L’autore del libro ritiene che tutti i processi aziendali debbano essere accuratamente monitorati per “stanare” tutti i possibili sprechi.
Cravera giustamente, a mio avviso, commenta che questo potrebbe essere un errore in quanto ciò che dal punto di vista del “Lean Thinking” è uno spreco potrebbe invece essere una naturale “ridondanza” necessaria all’organizzazione per meglio adeguarsi a mutevoli condizioni esterne. A tal proposito riporta alcuni efficaci esempi biologici e aziendali.
Desidero fare due commenti “epistemologici” all’approccio di Womack, entrambi di una certà gravità perché, ancora una volta, l’autore ragiona secondo l’idea di “un’azienda-macchina” che non è solo falsa ma anche pericolosa.
Il primo
L’ autore presuppone che sull’organizzazione aziendale vi sia un solo metodo di intervento: quello esterno. Che le persone siano capaci di esprimere innovazioni “dirompenti” (per capirci da cambio di paradigma) per loro conto, sul processo o sul prodotto, e che per farlo possano aver bisogno di “ridondanza” non è previsto, anzi è addirittura vietato.
Il miglior “processo” possibile è quello progettato dal management (o dal consulente, in ogni caso qualcuno che quel lavoro non lo fa) e questa “verità” è indiscutibile e “deve” essere implementata. Proprio come si farebbe nel caso di apportare migliorie ad un motore: ciò che può essere modificato lo sa il suo progettista, mica il motore stesso! Tale approccio va bene per le macchine (progettate e fatte interamente dall’uomo) e non per le persone che costituiscono l’organizzazione (e che non sono nè progettate nè fatte dall’uomo).
Se l’organizzazione è un carro tirato da cavalli, dunque fatto da due parti ben distinte, possiamo progettare ed efficentare il carro, che ha una sua funzionalità e risolve la sua ontologia nell’obiettivo del binomio, non il cavallo, che vive e prospera anche senza il carro.
Dunque ennesimo triste, e per fortuna irrealizzabile, tormentone nel voler considerare l’organizzazione e le persone che ne fanno parte una macchina.
Profonda ed anacronostica convinzione o incapacità di pensare ad altro per mancanza di strumenti e modelli?
In guardia allora da questi approcci che non mi pare siano una grande ricetta di sviluppo, soprattutto in questi tempi dove è richiesta “inventiva” e “innovazione” a tutti i livelli, caratteristiche entrambi che non mi pare le macchine abbiano mai avuto.
Luciano Martinoli
l.martinoli@cse-crescendo.com
La visione “meccanicistica” dell’azienda ha radici assai profonde, nel tempo e nello spazio; basti penare al fatto che, per un manager, il risultato è frutto di un processo, appunto, “meccanico”. Conosco bene il libro e la gestione falsamente innovativa che il cosiddetto “lean thinking” si crede abbia apportato. In realtà, non è che una forma evoluta del batterio (mutante) che tiene in vita il paradigma classico. È divertente osservare esimi luminari del management scontrarsi ancora oggi: da una parte i cosiddetti “fordisti”, ancorati al modello produttivo definito “push”, e dall’altra i “lean thinker”, quasi messianici nel diffondere il verbo del modello “pull”, che ha le sue origini con la Toyota.
RispondiEliminaA un osservatore attento non dovrebbe sfuggire il grottesco paradosso: entrambi i modelli agiscono sulla “meccanica” dell’azienda, vale a dire su ciò che è inerte; ed entrambi non prendono in considerazione ciò che in realtà è vivo all’interno dell’azienda, vale a dire l’essere umano, il cavallo.
Ora, per quanto affascinante possa essere la meccanica (e indubbiamente ammetto che per qualcuno lo possa essere), non è certo da qui che possono nascere creatività e innovazione; non è certo, per intenderci, imbrigliando la mente umana (l’essere umano) in strutture e modelli (che sono alla base del paradigma) che possiamo trovare dentro di noi le risorse necessarie a ‘creare’ e ‘innovare’. Banalmente: che io produca e tenti di vendere o che io produca solo ciò che ho già venduto, sono sempre all’interno dello stesso paradigma strategico, anche se indubbiamente il tipo di “industrializzazione” è profondamente diverso.
Massimiliano Manocchia