"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
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giovedì 7 luglio 2011

Ancora Nokia. La rinuncia al ruolo dell’organizzazione e la scelta di competere.

Avevamo già parlato della Nokia e del suo nuovo AD Stephen Elop, ex manager di Microsoft.
Recentemente Bloomberg Businessweek ha cercato di farne un resoconto un po’ più approfondito e qualitativo rispetto alle analisi specialistiche, sia tecniche che economiche.

Ovviamente da un articolo di giornale non è possibile conoscere il dettaglio e le sfumature della situazione, indubbiamente complessa. Ma ciò che è riportato, e quanto Elop sta facendo, conferma una chiara scelta: rinunciare all’organizzazione come fattore di rinnovamento strategico dell’azienda.
Vediamo perché.
Con l’ingresso nel mercato di Google col suo sistema Android  e Apple, le carte si sono completamente rimescolate.
La prima non produce apparati, ma mette a disposizione, gratuitamente, un sistema operativo per terminali. 
La seconda ha introdotto non un ennesimo e potentissimo telefonino ma un vero e proprio “oggetto del desiderio”. Una finestra portatile sulla rete e sul mondo, una valigetta di contenuti multimediali (foto, documenti, video, ecc.), un accessorio funzionale ed elegante che fa dimenticare anche le scarse prestazioni  come telefono.

Elop una volta entrato in azienda ha provocato uno shock, come già commentato in un post precedente, ma poi si è mosso nel segno della continuità. (per alcune considerazioni sugli aspetti strategici leggere qui)
Avendo a disposizione una “macchina cognitiva” incredibile, costituita dalle decine di migliaia di dipendenti che pure hanno fatto il successo della Nokia, invece di mobilitarla per far sì che essa, non lui con 57 collaboratori, tirasse fuori le idee e le intuizioni, e immediatamente le mettesse in pratica ovviamente perché generate da chi “fa”, ha ancora una volta usato l’organizzazione come una computer che deve eseguire il suo programma.

Migliaia, forse milioni, di anni uomo di esperienza in sistemi operativi per telefonini, innovazioni che pure l’azienda è in grado di produrre, e ha prodotto, insomma risorse preziosissime che avrebbero potuto ridisegnare una nuova e più efficace strategia dell’azienda, confinate a corollario delle scelte “illuminate” del grande capo.
L’orgoglio e la cattiva gestione possono uccidere un’azienda cita l’articolista.
Sulla cattiva gestione vedremo; l’orgoglio, del capo, sicuramente è rimasto.

Luciano Martinoli
l.martinoli@cse-crescendo.com

1 commento:

  1. Nel guardare il caso Nokia, (interessante spunto sulla limitatezza dell'approccio managereriale rispetto a quello dell'imprenditore visionario e concreto al contempo), sono poi finito sul commento all'articolo dell'economist di Henry Mintzberg -

    (Perchè il leader non sarebbe più tale?)

    Mi sembra che questo articolo brilli per la concretezza dell’analisi e della critica dell’(attuale) organizzazione riscontrabile in molte realtà aziendali.

    Un analisi “spietata” della situazione (altrettanto spietata) in cui versano molte Imprese e Società Commerciali o di Servizi.

    Ovviamente qui si parla di Pubblic Companies. Cioè aziende quotate in borsa, a proprietà diffusa, o in mano ai Private Equities.

    In questi casi non sono molto separabili i confini dell’azienda con le richieste e gli obbiettivi del mercato (finanziario).

    Nelle aziende familiari il problemi sono altri.

    Dire che il problema sia solo all’interno dell’organizzazione aziendale e cioè solo imputabile al comportamento dei suoi “Leaders” significa un po' dimenticare che nel mondo esterno, quelli che qui sono chiamati “economists” o Score-keepers non sono certo neutrali nella definizione dei risultati attesi dell’azienda e dunque, in definitiva, al modello di remunerazione dei CEO.

    Dunque per risolvere il problema e uscire dalla crisi, occorrerebbe, forse, mettere in evidenza anche le influenze (spesso troppo miopi e poco interessate al lungo termine) del mondo finanziario.

    Ma questo, forse, l’Economist non gradisce dirlo.




    Leonardo Donà

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