E' questo il tema dell'ultimo numero dell' Harvard Business Review ed in particolare il titolo di uno degli articoli che lo trattano ( versione integrale originale qui ).
Gli spunti di riflessione, di commento ma, sopratutto, di critica sono numerosi. Basti citare il fatto che sotto questo nome si raccolgono ormai le punte avanzate di ricerca di svariate discipline, Fisica, Matematica, Neuroscienze, Biologia, che, contaminandosi, stanno scoprendo una unicità di approccio utile sopratutto a fondare un "nuovo modo di guardare la realtà" e dunque di interazione con essa.
Purtroppo non solo nulla di tutto questo è citato, ma gli autori non mostrano nemmeno di saperlo, concentrati come sono nell'autoriferito esercizio di intuizioni personali , per lo più banalotte, ed elencazione dei "casi", tipico della divulgazione anglosassone in questo settore, che, a loro giudizio, dovrebbero "dimostrare" le loro tesi (come se in matematica una volta enunciato un teorema ci si limitasse a mostrare esempi con i quali si verifica l'enunciato! Questa pratica al massimo può chiarire la formulazione del teorema stesso.)
Non spaventatevi però, non voglio annoiarvi con una feroce critica della "miseria teorica della letteratura manageriale, sul piano concettuale, pari (purtroppo) solo al suo enorme impatto pratico" (M.Marzano), esercizio che è stimolato solo dall'indignazione per tali scandalose enormità.
Il tema è troppo serio per giocarci sù e voglio proporvi una "lettura" diversa, più approfondita, per cercare di evidenziare l'esigenza non di avere strumenti o trucchi più "smart", ma rivoluzionare il nostra approccio al problema, unica strada per capirci qualcosa e venirne fuori.
Iniziamo
Le organizzazioni complesse sono molto più difficili da gestire. E' più duro predire ciò che accadrà perchè i sistemi complessi interagiscono in modo inaspettato. E' più duro comprendere il senso delle cose perchè il grado di complessità può stare oltre i nostri limiti cognitivi.
Cosa significa gestire? Quale è la forma "facile" di gestione? Forse quella banale (Io, manager o "leader", dico e tu, mio sottoposto, esegui)?
Non è forse opportuno, nei casi delle organizzazioni complesse (ma quali sono quelle non complesse?) cambiare l'approccio e, per esempio, rinunciare a "gestire", intendendo per questo verbo ciò che si intende comunemente?
(vi è già un numeroso "drappello" di accademici del settore che sostiene questa tesi. Ne cito uno per tutti Mintzberg)
Perchè poi devo predire ciò che accadrà attraverso la previsione delle interazioni (delle parti? del sistema col mondo esterno?) ? Non posso accontentarmi di avere un comportamento del sistema che vada nella direzione da me attesa, al limite sorprendendomi dei risultati al di sopra delle mie più rosee aspettative, e fregandomene di come questo risultato sia stato raggiunto?
Se mi ostino a far sì che la prestazione di un sistema sia 100 ho due alternative plausibili: il sistema l'ho fatto io (progettato, costruito, montato) e già so che quelle sono le prestazioni possibili (è il caso della macchina, sistema fatto dall'uomo). Ma se il sistema non l'ho fatto io, è il caso delle organizzazioni fatte da uomini, imporre che raggiunga 100, e per giunta nel modo che dico io (le interazioni attese) impedisce a quel sistema di erogare 300, o 1000, o molto altro (che è poi l'aspirazione delle classi dirigenti aziendali quando chiedono all'organizzazione di essere creativa).
Cosa sono poi i nostri limiti cognitivi? Capacità di calcolo che ci impediscono di seguire tutti i dettagli evolutivi del sistema, o schemi mentali che ci possano far fare quel salto, quel paradigm shift per avere nuovi e più fecondi punti di vista? E se è vero il secondo caso perchè gli autori non ce li forniscono?
Breve commento finale sui rimedi nelle tre aree critiche identificate: Prevedere il futuro, Mitigazione del rischio, Fare compromessi.
Prevedere il futuro è esercizio utilissimo. Permette di pianificare le risorse, adeguarsi al contesto che verrà, ma questa voglia di previsione implica una drammatica verità: che il futuro sia già stato scritto... e non da noi.
E se non fosse vero?
E se una delle caratteristiche del sistema complesso per eccellenza, l'organizzazione aziendale, fatto dal più eccellente componente esistente in natura, l'Uomo, avesse la capacità di scrivere e determinare il proprio futuro? Perchè dovrei limitare questo sviluppo alla povera e meschina previsione di un singolo, per quanto illuminato? Perchè dovrei mortificare questo sacro e prezioso organismo ai limiti di minimalissimi "obiettivi" e rinunciare a quelle nuove identità a cui pure tendo in un momento di crisi come quello attuale?
Minimizzare il rischio, di qualunque tipo, è la principale preoccupazione e responsabilità di ogni manager. Ma se fosse l'effetto secondario (side-effect) e sgradito di una rinuncia a determinare con decisione, ma anche con attenzione, il proprio destino e quella dell' organizzazione di cui si è responsabili?
Se fosse davvero il risultato di una pianificazione di intervento unidimensionale (quello economico) dimenticando che il mercato, ovvero la realtà, è multiforme e dunque il "rischio" deriva semplicemente dall'aver ignorato questa pluridimensionalità?
Il compromesso è necessario laddove ci troviamo di fronte ad opzioni che non abbiamo determinato noi. Senz'altro può accadere, ma le strategie proposte dagli autori hanno il sapore rinunciatario e minimalista di chi fa di mestiere "colui che ci prova". La prima suggerisce di investire poco per limitare i danni e massimizzare gli eventuali benefici. Sarebbe a dire: non so che fare, provo un po' quì e un po' la nella speranza di trovare la strada giusta. Che la strada uno se la possa far da sè, e che al limite la prova per dargli aggiustamenti, non viene preso in considerazione dagli autori.
La seconda svela un approccio tristemente contraddittorio e, ahinoi, ampiamente praticato nelle aziende. Si suggerisce di avere all'interno delle organizzazioni diversità di pensiero per gestire cambiamenti e variazioni che inevitabilmente capitano. Seguono suggerimenti per reclutare tali diversità, ignorando però che, quasi sicuramente, già esistono all'interno delle organizzazioni e se non si esprimono è per la pratica schizofrenica dello stile manageriale che da un lato vuole perpetuare il modello command-and-control e dall'altro implora la creatività e l'iniziativa di tutti, non rendendosi conto della enorme contraddizione!
Mi pare che gli autori si stanno sforzando di guardare con "occhiali vecchi" (forse perchè solo quelli hanno) un problema (apparentemente) nuovo. Una sorta di esercizio di "proiezione" in due dimensioni di una realtà tridimensionale. Mi ricordano un racconto fantastico, Flatlandia, che narra di un mondo abitato da figure geometriche bidimensionali. Alla fine del racconto un quadrato, abitante di quel mondo, incontra una sfera, che abita il mondo tridimensionale, che cerca di descrivergli l'esistenza della terza dimensione muovendosi in alto e in basso. Il risultato è che il meschino viene confuso dall'effetto che osserva: si interrogan su come possa un cerchio cambiare diametro percependo esclusivamente le intersezione della sfera in movimento con il piano in cui abita!
Appare chiaro, allora, che Imparare a convivere con la complessità, non è questione di qualche trucco, più o meno articolato. E' un processo sopratutto culturale che passa attraverso l'adozione di un punto di vista diverso delle tematiche aziendali, un dotarsi di strumenti che ci consentano di vedere anche altre dimensioni. Solo dopo averlo accettato, si possono praticare metodi diversi (che pure già esistono e che proponiamo) e che partono da questi differenti presupposti .
Luciano Martinoli
l.martinoli@cse-crescendo.com
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