Perché le professioni rinnegano la conoscenza?
Quali "trappole" disseminano il cammino e come fare per evitarle?
Un equivoco aleggia su tutti gli ambiti professionali. Interni all'azienda, come i manager, o esterni, come i consulenti. In alcuni casi più grave in altri meno. Sto parlando della conoscenza e del suo sviluppo. La prima forma di questo equivoco è nella sua interpretazione. Spesso si intende per conoscenza una o più tecnologie da applicare deterministicamente all'ambito professionale di riferimento e da qui il fraintendimento che arriva ad esprimersi più o meno così: non penso che possa esistere una Teoria Generale della mia materia.
Il medico è un professionista, come tale fa riferimento ad un insieme di discipline (Anatomia, Fisiologia, Biologia, Genetica, Istologia, ecc.) e le utilizza, di volta in volta, per risolvere o prevenire alcuni "problemi" (malattie, disfunzioni, malesseri, ecc.). Non ha una Teoria Generale del corpo umano né si sogna di averla. La conoscenza medica, ciononostante, progredisce e ci permette di vivere, fisicamente, di più e meglio. Dunque ha una sua indiscussa efficacia, anche se non sempre documentabile numericamente.
Vi sono ambiti professionali che non riconoscono, o addirittura non hanno, questo corpus di conoscenze di riferimento. Ma anche quelli che ce l'hanno accusano la difficoltà di progredire nel suo sviluppo. Sviluppo assolutamente necessario per comprendere e indirizzare un mondo che cambia sempre più imprevedibilmente.
Penso che sia un tema di importanza soprattutto morale. E' scaduto il tempo di delegare la ricerca di improbabili miracolistiche soluzioni agli esperti e scienziati di turno. Se non si parte dalla propria personale responsabilità etica nell'affrontare questo meta tema, non ci sarà nessun reale salto di qualità nella risoluzione dei problemi più svariati che attanagliano il nostro vivere quotidiano in questo particolare momento storico, riassumibili, molto semplicemente, nella qualità, attuale e futura, della vita di ognuno di noi nella società, nelle aziende, nelle comunità...
Evidenzio quattro trappole e propongo un metodo per affrontarle, consapevole della responsabilità che prendo e in ansiosa attesa di correzioni e suggerimenti di merito.
1. La propria realizzazione (Il mito di Narciso?)
E' la molla più potente che spinge ognuno di noi a comportamenti anche estremi, addirittura lesionistici per se e per gli altri, se concorrono a soddisfare questo desiderio. Se riteniamo, non sempre in maniera consapevole, che il confronto su un tema possa permetterci di realizzare il nostro io profondo, non siamo disponibili ad un confronto; lo vivremo non come mezzo per l'arricchimento intellettuale, ma come minaccia all'individualità, al proprio status. Non è certo un peccato, ma un tale atteggiamento inibisce qualsiasi confronto costruttivo allo sviluppo di conoscenza condivisa. Impone la visione di uno sugli altri, suscitando in essi resistenze e rifiuto.
2. "Tengo famiglia"
E' sacrosanto il diritto di provare a vendere i propri servizi e prodotti, ma vi sono ambiti nei quali le persone hanno l'opportunità, secondo me il dovere, di esprimersi come individui e non come professionisti o dipendenti di aziende che difendono la necessità della pagnotta. Soprattutto nell'ambito professionale questa tentazione è fortissima facendo perdere la possibilità al singolo di dare un contributo ma, più grave, isolandolo rispetto agli altri che lo etichetteranno come inutile al dibattito. Il principale vantaggio di questa trappola e che è riconoscibilissima, per chi legge. Ma quanti, tra quelli che interpretano questo ruolo, se ne accorgono?
3. Il disturbo delle opinioni ( e delle ideologie)
Ognuno di noi ha le sue convinzioni. Giuste, sbagliate, chi può dirlo? A volte la difesa di una opinione, di una propria ideologia coincide con la difesa di una identità ed è difficile, spesso irrinunciabile, recedere. Chi si sente disturbato nelle proprie opinioni ha due possibili scelte, una positiva ed una negativa. In quella positiva si dà una tregua, si allontana dall'ideologia a lui cara, la dimentica per un momento allo scopo di verificare, onestamente, cosa ci può essere di nuovo nella conoscenza proposta e decidere, successivamente e in base al merito, se accettarla, casomai elaborandola, o rifiutarla. L'altra opzione, negativa, è di abbandonarsi a reazioni di rifiuto, o con l'aggressione verbale, e si spera esclusivamente quella, o con la fuga, l'abbandono del campo di dibattito, perdendo così un'occasione di crescita.
4. La pigrizia dell'ignoranza (o l'ignoranza della pigrizia)
Conoscere costa fatica! Bisogna studiare, avere fonti di informazione, comprenderle, farle proprie, essere disponibili a metterle in discussione, ricevere stimoli, lasciarsi instillare dubbi e ripartire da capo. La stragrande maggioranza dei professional non è disposta a fare nulla di tutto questo. Conosco una cosa? La cito. Controbatti con un altra fonte? O ridico la mia o vado da qualche altra parte dove non mi conoscono e ridico l'unica cosa che so. Pochi si rendono disponibili ad "agganciare" o essere agganciati da un interlocutore per costruire un pensiero comune sulla base delle conoscenze e indicazioni che si erano impegnati a scambiarsi.
Queste trappole, come dicevo, sono comuni un po' in tutti gli ambiti. Aggravati laddove non vi sono conoscenze di base accettate e condivise.
In una società intrinsecamente non semplice, o, se accettate un aggettivo per il suo significato etimologico essenziale, complessa, la costruzione di conoscenza, quella generale, che fa progredire tutti e che risolve i problemi di metodo alla base dei vari problemi, non può essere delegata a specialisti. Questi possono fornirci dettagli, soluzioni interstiziali, di nicchia, le quali, tra l'altro, sono già disponibili in abbondanza. Inoltre questa conoscenza non è sufficiente che convinca, deve emozionare, come davanti ad un quadro, una poesia, un opera d'arte. E deve essere sociale, fatta e condivisa da tutti. Solo così si arriverà a disporre di conoscenza che possa risolvere i problemi politici, economici, finanziari di una società ma anche strategici e organizzativi di un'azienda. Non nozioni tecniche a scopo funzionale, ma intuizioni profonde ed emotivamente condivise.
Su queste basi prendo la responsabilità di proporvi un metodo. Esso ha basi scientifiche, si poggia su conoscenze di un corpus ben definito, ampio, in continua evoluzione. Non è questa la sede per illustrarlo. Non aspettatevi però una procedura algoritmica che se fornita degli input giusti ed eseguita correttamente arriva certamente a risultati. Nulla di tutto questo. Preparatevi ad essere innanzitutto persone, interrogandovi onestamente su cosa siete disponibili a fare, e poi sulla responsabilità che sentite verso la comunità umana alla quale appartenete.
Spogliatevi: dal ruolo aziendale, dalle cariche, dai titoli, dal sesso, dall'età, dalla nazionalità, dall'etnia, dalla lingua...
Denudatevi e guardatevi allo specchio!
- Vastità e profondità dello sguardoIniziamo da noi, dalla responsabilità personale che ognuno deve avere nel porsi all'interno della comunità umana alla quale appartiene. Cosa vedete? Il vostro giardino di casa o la società italiana? Il paese in cui vivete o l'intero mondo al quale è inesorabilmente interconnesso? Non è un esercizio fine a se stesso, sterile o teorico. E' l'inizio di un percorso che se avrà una lunghezza limitata sarà facile e breve (raggiungere lo steccato del vicino) ma con risultati miseri e di corto respiro. Se invece la testa si alzerà e oseremo volgere lo sguardo all'orizzonte o oltre, ci diamo l'impegno per un cammino lungo, ma di sicuro non banale e foriero di cambiamenti profondi.Impossibile? Certo se lo stabiliamo come tale. Inapplicabile in ambito professionale? Certamente se consideriamo il nostro lavoro un mero strumento di sopravvivenza deciso, e fornito per gentile concessione, da altri. Oppure se riteniamo che il nostro lavoro debba essere sempre quello. Ma tutto ciò era vero fino a qualche anno fa, oggi viene minacciata anche la nostra sopravvivenza. Guardare il proprio giardino è esercizio che si può permettere di fare, vigliaccamente, solo chi vive nelle poche, e sempre meno, isole felici rimaste.
- L'Umiltà della ricerca (vi sono domande non risposte)Fissato il nostro, personale orizzonte dobbiamo iniziare la ricerca di strumenti per incamminarcisi. Dovremmo riuscire ad ammettere che alle domande importanti vi sono solo le piccole risposte parziali e individuali che sappiamo dare noi in solitudine. Ed allora capiremo che se gli altri non le accettano è perché banalmente non le riconoscono proprie. Gli altri che hanno la stessa nostra legittimazione nell’ immaginare risposte. Allora dovremmo concludere che non esistono ancora risposte socialmente condivise, cioè le uniche risposte che hanno la possibilità di essere realizzate.Ecco quindi l'importanza di una ricerca, una importanza non banalmente funzionale ma con motivazioni etiche. Bisogna avere l'umiltà, e accettare di fare fatica, nel praticare diverse discipline che l'umanità ha sviluppato nel corso della sua esistenza, superando la distinzione tra scientifiche ed umanistiche (la scienza infatti è prodotta dagli uomini, non da altri esseri, dunque anche essa umanistica). Tale esercizio non deve avere fini specialistici, conoscenza di dettagli, e nemmeno praticare le discipline declinate da altre, che invece dovrebbero costituire il bagaglio minimo di conoscenze di ogni professionista. I terreni dove scorrazzare devono essere le conoscenze trasversali, fondamentali, non declinate (matematica, letteratura, fisica, psicologia, ecc.) e di queste chiedere e comprendere il senso profondo, il loro significato, non i dettagli.
- Il dovere e coraggio della propostaOggi proporre non è compito degli specialisti, dei superiori, di chi ha rango, censo, titolo. Oggi proporre è dovere di tutti, se tutti hanno sopportato l'impegno e lo sforzo di arrivare fin quì, di aver avuto il coraggio di allargare lo sguardo e sopportato la fatica della ricerca. E deve essere una proposta all'altezza dello sguardo, non deve essersi persa per strada, non deve affrontare il problemino spicciolo, ma indirizzare un cambiamento radicale profondo. Un dovere di tutti, donne e uomini, in modo egualitario.
- L'onere della sintesi: un arbitro che non gioca per nessuna squadra.Nel futuro, speriamo il più vicino possibile, questo dovrebbe essere il compito delle classi dirigenti (oltre a fornire questo o un altro metodo di sviluppo di conoscenza sociale): fare una sintesi. Questo "qualcuno" deve sempre essere un terzo, nessuno che abbia partecipato al "gioco" della costruzione, questo è compito di tutti gli altri. Il rischio nel non rispettare questa semplice regola è evidente: esaltare il proprio contributo o essere accusato di averlo fatto e, se questo accade, vedere vanificato lo sforzo di tutti. La sintesi non sarà un esercizio di miglior sovrapposizione tra tutte le proposte, il più funzionale compromesso, un risultato al ribasso. Assolutamente no! Chi fa sintesi lo deve fare al rialzo, il suo sforzo sarà quello di comprendere il contributo di tutti, anzi di più, allargarlo al punto da far sciogliere entro di esso anche eventuali conflitti.
- La profezia dell'azione.Parlare della profezia dell’azione non significa soltanto dire che alle parole occorre far seguire i fatti. Significa invece dire che i fatti devono nascere dalla vastità e dalla profondità dello sguardo. Scavare nel giardino di casa dà certamente un sapore di concretezza, ma rimane la concretezza della polvere. Occorre realizzare fatti che costruiscano le risposte ai problemi fondamentali, che attivino cambiamenti strutturali, che non risolvano banalmente il problemuccio contingente di oggi ma lo facciano semplicemente scomparire.
- L'opera d'arte finale: il raccontoQuando si dispone di una forte proposta condivisa chi ha fatto la sintesi occorre che la renda visibile ed ammirabile attraverso un raccontare appassionato. Forse bisogna smettere di usare la parola “comunicazione”. Oramai è sinonimo di auto rappresentazione. Un' auto rappresentazione anche “pelosa” che ha come obiettivo unico e dichiarato il potere. Noi abbiamo bisogno di un raccontare che crei comunità, che emozioni e riemozioni tutti e non può farlo un foglio excel, una presentazione powerpoint o un documento burocratico. Solo una opera d'arte può scatenare queste forti emozioni. E da non dimenticare, infine, il momento celebrativo di tale opera. Esso non ha il significato di una semplice esposizione di un lavoro fatto, ma sarà il momento sociale nel quale prende immediatamente significato, per tutti i partecipanti, lo sforzo compiuto fino a quel momento.
E tutto questo reiterato all'infinito, perché il mondo attorno a noi cambia e così deve cambiare la conoscenza sociale di cui dotarsi per comprenderlo, governarlo, indirizzarlo.
Spero sia chiaro che un tale metodo, per sopravvivere alle trappole, imponga un cambiamento di registro, un impegno umano, non tecnico funzionale, ma assolutamente necessario per far accadere le cose importanti che attendiamo da anni. Il rischio è che prima o poi, qualcosa dentro di noi, e forse anche fuori, ci accusi di non aver davvero a cuore nulla di cui diciamo di occuparci per professione .
Luciano Martinoli
l.martinoli@cse-crescendo.com
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