"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

lunedì 29 agosto 2011

Ma non è che ci tiriamo la zappa sui piedi?


di
Francesco Zanotti

Chiunque viaggi per organizzazioni (e chi ci viaggia più di un consulente?) percepisce un crescente clima di tensione, fatica, ansia. Si accavallano riunioni, urgenze … l’organizzazione sembra sorda e cieca, i vertici sembrano non comprendere … e la situazione è in peggioramento.
Che fare? Beh, proviamo a cercare la ragioni di questa situazione.
In genere si pensa che tutto questo sia generato dall’esterno. Dall’ambiente competitivo, se si parla di tutta l’impresa. Dall’organizzazione stessa se si parla di persone o piccoli gruppi. Bene se i guai vengono dall’esterno, allora non c’è niente da fare. Occorre aumentare la quantità, i tempi di lavoro, vivere sempre di più nell’attesa che le vacanze ci diano respiro umano … ed aspettare che passi la nottata come si dice a Napoli. Volendo seguire la saggezza napoletana si può provare a pregare San Gennaro. O, più laicamente, si può chiedere alla classe politica di cambiare il mondo. Ma, a questo punto, si comincia a pensare seriamente all’alternativa San Gennaro …

Oppure … 


E se … Dunque io credo che tutti noi siamo convinti che il mondo è costruito dall’uomo con le sue specifiche azioni … dunque … e se la situazione che genera tensione, fatica, ansia fosse costruita da noi stessi, dai nostri comportamenti dirigenziali? Allora la soluzione sarebbe immediata: basterebbe che cambiassimo questi nostri comportamenti … E siccome sono nostri, possiamo cambiarli quando vogliamo … Ma ci vuole sempre tempo, mi si obietterà. Certo, ma sarebbe il tempo della costruzione e non un tempo di ansia che procura altra ansia …

Ecco io credo che l’attuale situazione di ansia, fatica e tensione nasca veramente dai nostri comportamenti. Quei comportamenti che pensiamo siano la soluzione e, invece, costruiscono il problema. E, ovviamente, dai nostri pensieri (dal nostro modo di guardare all'organizzazione) che ci suggeriscono quei comportamenti.  Io propongo nuovi pensieri e nuovi comportamenti direzionali (nuove cose da fare, abbandonando le cose antiche) che possono iniziare da subito la costruzione di nuove organizzazioni e nuovi mercati, dove si sciolgono i problemi che oggi ci assillano ed emergono le mille nuova opportunità che esistono, ma non vediamo.

Ho citato una tesi “forte”. Per dimostrarla rimando ad un post di qualche giorno fa “Misurare o mobilitare le persone? Una visione quantistica dell’organizzazione” e ad un paper, che possiamo inviare a chi ce ne faccia richiesta, che declina questo discorso generale in un caso concreto di cambiamento: la sicurezza (Una Comunità che costruisce sicurezza). In questo post, mi posso limitare a qualche suggestione.

Quando si decide un cambiamento, non si riesce, ovviamente, a specificarlo completamente fino a definire i comportamenti delle singole persone. Qualche comportamento si riesce a codificarlo in procedure. Ma gli altri devono essere scelti autonomamente dalle persone. Per operare queste scelte si danno indicazioni generali (ad esempio: i valori fondamentali dell’impresa) e si pensa che le persone, con impegno e competenza, sapranno scegliere i comportamenti giusti. Allora si comunica il cambiamento semi-progettato e si attenda che venga realizzato.

Non accade, però che il cambiamento venga realizzato. Sembra che nell’organizzazione emergano resistenze “cattive” che tentano di evitare il cambiamento. Ed allora si cerca di comunicare più forte, usando il bastone (le punizioni) e la carota (la motivazione, i premi). Ma sembra che più si spinga più le resistenze screscano …

Cosa cambiare in questi pensieri e comportamenti? Non riesco davvero a fare un discorso sistematico, solo alcuni spunti …

Non pensate che la comunicazione generi azione (il cambiamento desiderato). La comunicazione genera altra comunicazione. Invece di spingere ad agire, spinge a parlare sul cambiamento. Detto diversamente e completando: il comunicare cosa cambiare costituisce uno stimolo per tutti i gruppi informali di cui l’organizzazione è formata perché ridiscutano i loro equilibri interni. Cosa guida questa ridiscussione? Il desiderio insopprimibile di auto realizzazione delle persone. Conclusione: la comunicazione scatena dinamiche, assolutamente non trasparenti al management, che generano comportamenti che solo casualmente sono coerenti con le attese di cambiamento dell’impresa. Qualche volta possono generare (perché questa può essere l’unica via di autorealizzazione rimasta ad alcune persone) il trasgredire proprio quei comportamenti che l’azienda è riuscita a esplicitare in procedure. Può insomma accadere di tutto, fino al paradosso: un processo di comunicazione genera la trasgressione del contenuto della comunicazione.

Quindi? Invece di progettare il cambiamento dal vertice e poi comunicarlo, attiviamo processo di progettazione sociale del cambiamento. Ma è una perdita di controllo? Si di quel controllo che tanto non abbiamo! La gran parte dei comportamenti è decisa dalle persone, che, però, lo fanno attraverso processi complicatissimi che fanno perdere il senso del cambiamento desiderato.

Dopo questo, potrei fare mille altri esempi. E’ inutile insistere con la formazione alle competenze manageriali. Primo perché le competenze manageriali, oggetto di formazione, sono quelle che generano quel blocco organizzativo che dovrebbero far superare. Secondo perché i processi di formazione non avvengono all’interno della vita organizzativa, ma in situazioni virtuali che, paradossalmente, più sono attive, più sono contro producenti …

Mi rendo conto che più che gettare un sasso nello stagno non sono riuscito a fare. Ma, come detto, rimando, per qualche riflessione più sistematica, al post di qualche giorno fa ed al paper ho citato.
E, poi, invito ad un dibattito che è certamente il miglior strumento di approfondimento.
Ovviamente l’invito è rivolto a tutti coloro che non (esistenzialmente non) condividono la filosofia di quel manager delle risorse umane che candidamente mi ha detto: “Sa, è vero che la vita organizzativa può essere stressante. Ma io ho raggiunto una posizione di prestigio che mi garantisce anche una notorietà esterna. Che interesse ho a distruggere un equilibrio che mi garantisce quello per cui ho tanto faticato: un importante ruolo sociale ed un buon stipendio? Certo, però, la ringrazio per le sue osservazioni e per i documenti che mi lascia. Li leggerò, appena trovo un attimo di respiro”. Poi, dopo qualche altro convenevole, ci siamo avviati verso l’uscita della sala riunioni e, prima di uscire, davanti a noi, senza farci caso, ha messo i documenti che gli avevo dentro ad un armadietto della sala riunioni, insieme ai block notes ed alle penne col nome dell’azienda. Con un compiaciuto sorriso sulle labbra ci ha accompagnati cortesemente all’uscita continuando a raccontare dell’importanza della posizione raggiunta e dell’apprezzamento che continuamente riceva per il modo in cui la ricopriva … mentre io pensavo a tutti gli armadietti fisici, organizzativi o mentali nei quali costantemente buttiamo opportunità continuando a reclamare perché vediamo solo problemi.

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