di
Francesco Zanotti
Il primo problema è che non è possibile predefinire
tutti i comportamenti necessari a far funzionare l’organizzazione formale. Non
è possibile proceduralizzare tutto. Se fosse possibile, si potrebbe
automatizzare i processi produttivi e di servizio. Questa difficoltà di
proceduralizzazione, di formalizzazione dell’organizzazione cresce a mano a
mano che i prodotti e i servizi diventano più complessi: una crescente a
discrezionalità decisionale e comportamentale è sempre più inevitabile.
Per un istante, si può pensare di risolvere la
questione attraverso i Capi: sono loro che localmente e nei singoli momenti potrebbero
suggerire i comportamenti più efficaci ed efficienti agli Operativi. Ma la
tentazione svanisce immediatamente: una supervisione diretta “totale” non è
realizzabile.
Ragionamento ineccepibile, anche se la supervisione
diretta è una tentazione permanente di moltissimi capi. E’ figlia della
convinzione profonda di molti Capi che loro saprebbero fare meglio il lavoro.
Che, a sua volta, è figlia della scelta di nominare capo chi ha la migliore
capacità operativa.
Ma supponiamo pure (per assurdo, ovviamente) che la
supervisione diretta sia possibile. Anche accettando questa ipotesi, la sfida
del controllo ottimizzante dei comportamenti non sarebbe possibile. Ci si scontrerebbe
con la soggettività (e i limiti) dei Capi.
Intendo dire che i Capi suggerirebbero quei
comportamenti che derivano dalla loro visione dell’organizzazione, ma cosa
garantirebbe che possiedono la visione “corretta”?
Si definiscono gli obiettivi da raggiungere e
si lascia esplicitamente libertà di comportamenti. E’ la via in realtà oggi
seguita. Ma ha inconvenienti gravissimi. Il primo è che il controllo funziona
solo ex post. Quando gli obiettivi sono stati raggiunti o non raggiunti. Se non
sono stati raggiunti si prendono provvedimenti, ma è come chiudere la stalla
quando i buoi sono già scappati.
Ma vi sono anche altre ragioni più profonde. La prima è che
imponendo ad un gruppo di persone obiettivi dall'esterno si impongono al gruppo
stesso i limiti di visione e di speranza di chi ha imposto. Il secondo è
che l’insieme di tanti comportamenti scelti individualmente non potrà certo
essere ottimale. Sarà un guazzabuglio che potrà generare non solo il non
raggiungimento degli obiettivi, ma anche tanti altri guai. Ovviamente speso
anche visibile solo in tempi lunghi. Quando non solo i buoi sono giù usciti
dalla stalla, ma la stalla stessa è diventata decrepita.
Questo ragionare ci porta a rileggere il problema
del cambiamento.
Se nel progettare un cambiamento non è possibile
arrivare a progettare i comportamenti, cioè i determinanti dei risultati di una
organizzazione, allora significa che chi progetta il cambiamento può progettare
solo il contesto nel quale poi le persone sceglieranno i comportamenti. Ma non
si riesce a sapere come un cambiamento di contesto cambierà i comportamenti. In
pratica: una gestione direttiva del cambiamento non è possibile perché una
organizzazione ha una sua irriducibile autonomia. Una gestione direttiva del
cambiamento fa risuonare l’organizzazione viva (l’insieme delle persone) che
producono un sistema di comportamenti non predicibile.
Il problema è sapere se questo risuonare autonomo
produce una sinfonia o una cacofonia. Meglio: obiettivo del processo
direzionale è quello di far sì che dal processo di emergenza nasca sempre una
sinfonia.
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