"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

giovedì 4 aprile 2013

Una pausa di riflessione


di
Francesco Zanotti


Dopo la pubblicazione dei primi sette capitoli che ho scritto e che abbiamo diffuso, propongo ai lettori di questo blog una riflessione complessiva.

Il primo messaggio che voglio dare è: il management è un’area di conoscenza umana come le altre. Questo significa che anche nel management sono possibili “cambiamenti di paradigma”. Che rivoluzionano sia la teoria che la prassi di gestione delle nostre imprese.
Ovviamente ogni cambiamento di paradigma deve partire dallo stato dell’arte complessivo delle conoscenze manageriali e compiere una vera e propria rivoluzione di esse.

Il libro che sto scrivendo si propone come cambiamento di paradigma.

I primi sette capitoli hanno presentato l’ineluttabilità di un cambiamento di paradigma. E credo che nel cuore di molti questa ineluttabilità sia già percepita, anche se non razionalizzata.
Ecco la sintesi dei contenuti dei primi sette capitoli.


Il paradigma attuale del management è centrato sul concetto di direzione: il manager decide e gli altri eseguono. Si può addolcire la pillola, il dirigere può anche essere “addolcito”, nobilitato attraverso il concetto di “leadership”, può prevedere un certo grado di partecipazione, ma rimane il fatto che c’è chi comanda e chi ubbidisce.
Ora la mia scoperta è che questo paradigma è inapplicabile.
Infatti.
Gli “agenti” che producono i risultati di un’impresa sono i comportamenti delle persone. Questo significa che per gestire i risultati occorre gestire i comportamenti.
Poste così le cose nasce immediatamente un problema: il management non riesce a definire tutti i comportamenti che sono necessari a produrre i risultati. Riesce a definire solo alcuni (quelli proceduralizzabili), ma molti altri devono essere scelti liberamente dalle persone. Se non si riescono a definire i comportamenti, il concetto stesso di direzione perde di senso: cosa significa “comandare” quando non è possibile definire con precisione un “comando” e sono i “comandati” che decidono?

Mi si può fare una obiezione: ma si gestisce una organizzazione anche attraverso la “cultura” e i “valori”. Proprio convinti? Allora provate a riflettere: … cosa è la cultura, cosa sono i valori? Sostengo che l’attuale paradigma direzionale non contempla una definizione di cultura e valori. Ancora, supponiamo pure che questa definizione esiste, ma come cultura e valori influenzano i comportamenti? Domanda senza risposta. Infine: ma chi sostiene di gestire la sua organizzazione attraverso cultura e i valori, sa descrivere cultura e valori della sua organizzazione? La risposta è: no!

Come perde di senso il concetto di direzione, perde di senso il concetto di gestione del cambiamento. Se non si riescono a descrivere i comportamenti attuali, come si posso descrivere cambiamenti nei comportamenti?

Cosa sostituire al paradigma del dirigere?

Per rispondere a questa domanda ho cercato di capire da dove nascono i comportamenti, di qualsiasi tipo essi siano.
La risposta è che emergono dalla organizzazione informale. Ed emergono in un modo particolare. Prendiamo come esempio un certo tipo di comportamenti: quelli relazionali. Essi hanno come origine l’esistenzialità profonda delle persone, il loro sistema di risorse cognitive e sono orientati a posizionare le persone stesse all’interno del loro gruppo sociale di riferimento. E’ vero che generano i risultati aziendali, ma non hanno questi come riferimento. Generalizzando possiamo dire che i comportamenti emergono dall'organizzazione informale, ma i risultati che generano non sono previsti, ne sono un sottoprodotto casuale.

Di più, l’organizzazione informale non è conoscibile. Se si considerano ad esempio l’esistenzialità profonda delle persone e le loro risorse cognitive è chiaro che esse non sono conoscibili. Lo stesso vale anche se si prende in considerazione il sistema delle relazioni sociali, se si prova a conoscerlo, a misurarlo, in realtà si crea un nuovo sistema di relazioni (costituito dal sistema sociale che si vuole misurare + il misuratore). E si ottiene una descrizione di questo nuovo sistema (del tutto artificiale), per di più, visto con gli occhi del misuratore.
Se l’organizzazione informale non è conoscibile ogni analisi del clima, del sistema delle competenze et similia non ha senso.

Da ultimo: l’organizzazione informale evolve per conto suo. Questo significa che, anche se vi potessero essere attività che portano a generare una descrizione della organizzazione informale, esse genererebbero una immagine del passato perché, nel mentre si misura, si analizza e si scrive il rapporto di ricerca, l’organizzazione informale evolve in modalità che non possono essere assolutamente previste.

Partendo da queste considerazioni ho sviluppato una proposta per il Governo delle organizzazioni complesse che è tanto semplice quanto rivoluzionaria. Essa sostituisce praticamente tutte le tradizionali attività di Governo. Compresa la formazione che diventa pleonastica e stucchevole (al di fuori delle conoscenze proceduralizzabili).

Per raccontarla, appuntamento al prossimo capitolo… Nell'attesa: cosa ne pensate di quanto detto finora? Siete d’accordo?

3 commenti:

  1. Caro Francesco, mi riconosco nel senso generale e in gran parte delle affermazioni dei capitoli precedenti. Mentre su questo blog ho alcune domande di approfondimento.
    Ad un certo punto scrivi: "Come cultura e valori influenzano i comportamenti? Domanda senza risposta". In che senso? La cultura e i valori influenzano direttamente i nostri comportamenti: non si possono predeterminare in modo meccanicistrico, però se ne può parlare.
    E chiaro per esempio che una cultuira ipercompetitiva e aggressiva e che premia questo tipo di comportamento, genererà più facilmentre comportamenti di questo tipo, allontanado magari persone più collaborative, introverse e magari creative. Una cultura che no ha paura del confronto e della diversità di opinioni probabilmente crearà le condizioni per una maggiore innovazione e creatività aziendale ecc.
    Dire inoltre che l'organizzazione informale non è conoscibile, e che non sono conoscibili le risorse cognitive, delle eprsone e cioè il loro immaginario, i loro riferimenti culturali, le loro credenze, i loro impliciti, mi pare una affermazione troppo forte. Si può fare molto per far emegergere gli impliciti e le credenze profonde, attraverso l'analisi del linguaggio e delle metafore.
    Ultima cosa che mi ha molto colpito il fatto che la formzione diventa pleonastica. In che senso? La formazione - per come la intendo - lavora sul cambiare idea e sul mettere in discussione l'esistente, aiutando a vedere con la giusta distanza ciò che facciamo in modo automatico tutti i giorni. E proprio considerando il fatto che i temi della complessità sono così poco consociuti la formazione diventa fondamentale...
    Stefano Pollini

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  2. Caro Stefano,
    innanzitutto:grazie per le tue osservazioni/domande. Esse meritano una risposta approfondita. Parte di essa sarà contenuto nel prossimo capitolo che diffonderemo in settimana. Solo qualche piccola anticipazione. Immagina due operai che devono cambiare insieme un pezzo. I loro comportamenti dipendono dalle relazioni tra di loro che dipendono a loro volta dalle loro esistenzialità profonde e dai loro sistemi cognitivi. Di tutte questa cose non si può sapere nulla. La ragione principale è che le "analisi conoscitive" non esistono in un sistema umano. Se un osservatore prova ad analizzare un sistema umano, le conclusioni a cui arriva riguardano la sua relazione con il sistema analizzato. E sono oggetto di interpretazioni soggettive. Questo significa che anche gli impliciti e le credenze profonde che si riuscisse a vedere sono in realtà proiezioni del guardare dell'osservatore.e che importanza vuoi che abbiano le proiezioni di un estraneo? La formazione, fatta da un formatore esterno, più è intensa, più influisce in un modo inconoscibile con la vita organizzativa. L'unica formazione che ha senso è quella che fa il Capo ai suoi collaboratori. Questo significa che il mestiere del formatore deve scomparire? Come lo si intende oggi e più lo si intende in modo "nobile", più deve sparire.
    Mi scuso davvero per le due battute su temi importanti. Ma riflessioni più complete le trovi nel capitolo che riguarda la visione quantistica dell'organizzazione (che non ha nulla a che vedere con discorsi probabilistici) e nel capitolo che pubblicheremo venerdì.
    Grazie ancora ed un cordiale saluto
    Francesco

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  3. Lo trovo molto interessante e naturalmente lo condivido. Penso però che manchi una visione logica delle procedure e dei comportamenti. Non so spiegare bene, perché non sono una consulente ma una persona che esegue direttamente il lavoro, ma sostengo che una buona organizzazione possa fare molto. Il mio parere é che sia necessario comunque un capo (un regista) e che gli altri eseguano, ma in modo sinergico. Ritengo che la cultura come conoscenza di se stessi per comprendere gli altri e, che per eseguire un certo lavoro sia necessario vederlo dal di fuori, obiettivamente e razionalmente (per trovare la strada migliore), non possa essere prerogativa di uno soltanto. É vero che il comportamento informale genera i risultati ma a mio avviso genera anche infelicità, fatica e una mole di lavoro esorbitante e ingiustificata.
    Cinzia Tiberto

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