di
Francesco Zanotti
Dopo la pubblicazione dei primi sette capitoli che ho scritto e che
abbiamo diffuso, propongo ai lettori di questo blog una riflessione
complessiva.
Il primo messaggio che voglio dare è: il management è un’area di
conoscenza umana come le altre. Questo significa che anche nel management sono
possibili “cambiamenti di paradigma”. Che rivoluzionano sia la teoria che la
prassi di gestione delle nostre imprese.
Ovviamente ogni cambiamento di paradigma deve partire dallo stato dell’arte
complessivo delle conoscenze manageriali e compiere una vera e propria
rivoluzione di esse.
Il libro che sto scrivendo si propone come cambiamento di paradigma.
I primi sette capitoli hanno presentato l’ineluttabilità di un
cambiamento di paradigma. E credo che nel cuore di molti questa ineluttabilità
sia già percepita, anche se non razionalizzata.
Ecco la sintesi dei contenuti dei primi sette capitoli.
Il paradigma attuale del management è centrato sul concetto di
direzione: il manager decide e gli altri eseguono. Si può addolcire la pillola,
il dirigere può anche essere “addolcito”, nobilitato attraverso il concetto di
“leadership”, può prevedere un certo grado di partecipazione, ma rimane il
fatto che c’è chi comanda e chi ubbidisce.
Ora la mia scoperta è che questo paradigma è inapplicabile.
Infatti.
Gli “agenti” che producono i risultati di un’impresa sono i
comportamenti delle persone. Questo significa che per gestire i risultati
occorre gestire i comportamenti.
Poste così le cose nasce immediatamente un problema: il management non
riesce a definire tutti i comportamenti che sono necessari a produrre i
risultati. Riesce a definire solo alcuni (quelli proceduralizzabili), ma molti
altri devono essere scelti liberamente dalle persone. Se non si riescono a
definire i comportamenti, il concetto stesso di direzione perde di senso: cosa
significa “comandare” quando non è possibile definire con precisione un
“comando” e sono i “comandati” che decidono?
Mi si può fare una obiezione: ma si gestisce una organizzazione anche
attraverso la “cultura” e i “valori”. Proprio convinti? Allora provate a
riflettere: … cosa è la cultura, cosa sono i valori? Sostengo che l’attuale
paradigma direzionale non contempla una definizione di cultura e valori.
Ancora, supponiamo pure che questa definizione esiste, ma come cultura e valori
influenzano i comportamenti? Domanda senza risposta. Infine: ma chi sostiene di
gestire la sua organizzazione attraverso cultura e i valori, sa descrivere
cultura e valori della sua organizzazione? La risposta è: no!
Come perde di senso il concetto di direzione, perde di senso il
concetto di gestione del cambiamento. Se non si riescono a descrivere i
comportamenti attuali, come si posso descrivere cambiamenti nei comportamenti?
Cosa sostituire al paradigma del dirigere?
Per rispondere a questa domanda ho cercato di capire da dove nascono i
comportamenti, di qualsiasi tipo essi siano.
La risposta è che emergono dalla organizzazione informale. Ed emergono
in un modo particolare. Prendiamo come esempio un certo tipo di comportamenti:
quelli relazionali. Essi hanno come origine l’esistenzialità profonda delle
persone, il loro sistema di risorse cognitive e sono orientati a posizionare le
persone stesse all’interno del loro gruppo sociale di riferimento. E’ vero che
generano i risultati aziendali, ma non hanno questi come riferimento.
Generalizzando possiamo dire che i comportamenti emergono dall'organizzazione informale, ma i risultati che generano non sono previsti, ne sono un sottoprodotto
casuale.
Di più, l’organizzazione informale non è conoscibile. Se si considerano
ad esempio l’esistenzialità profonda delle persone e le loro risorse cognitive
è chiaro che esse non sono conoscibili. Lo stesso vale anche se si prende in
considerazione il sistema delle relazioni sociali, se si prova a conoscerlo, a
misurarlo, in realtà si crea un nuovo sistema di relazioni (costituito dal
sistema sociale che si vuole misurare + il misuratore). E si ottiene una
descrizione di questo nuovo sistema (del tutto artificiale), per di più, visto
con gli occhi del misuratore.
Se l’organizzazione informale non è conoscibile ogni analisi del clima,
del sistema delle competenze et similia non ha senso.
Da ultimo: l’organizzazione informale evolve per conto suo. Questo
significa che, anche se vi potessero essere attività che portano a generare una
descrizione della organizzazione informale, esse genererebbero una immagine del
passato perché, nel mentre si misura, si analizza e si scrive il rapporto di
ricerca, l’organizzazione informale evolve in modalità che non possono essere
assolutamente previste.
Partendo da queste considerazioni ho sviluppato una proposta per il
Governo delle organizzazioni complesse che è tanto semplice quanto
rivoluzionaria. Essa sostituisce praticamente tutte le tradizionali attività di
Governo. Compresa la formazione che diventa pleonastica e stucchevole (al di
fuori delle conoscenze proceduralizzabili).
Per raccontarla, appuntamento al prossimo capitolo… Nell'attesa: cosa
ne pensate di quanto detto finora? Siete d’accordo?
Caro Francesco, mi riconosco nel senso generale e in gran parte delle affermazioni dei capitoli precedenti. Mentre su questo blog ho alcune domande di approfondimento.
RispondiEliminaAd un certo punto scrivi: "Come cultura e valori influenzano i comportamenti? Domanda senza risposta". In che senso? La cultura e i valori influenzano direttamente i nostri comportamenti: non si possono predeterminare in modo meccanicistrico, però se ne può parlare.
E chiaro per esempio che una cultuira ipercompetitiva e aggressiva e che premia questo tipo di comportamento, genererà più facilmentre comportamenti di questo tipo, allontanado magari persone più collaborative, introverse e magari creative. Una cultura che no ha paura del confronto e della diversità di opinioni probabilmente crearà le condizioni per una maggiore innovazione e creatività aziendale ecc.
Dire inoltre che l'organizzazione informale non è conoscibile, e che non sono conoscibili le risorse cognitive, delle eprsone e cioè il loro immaginario, i loro riferimenti culturali, le loro credenze, i loro impliciti, mi pare una affermazione troppo forte. Si può fare molto per far emegergere gli impliciti e le credenze profonde, attraverso l'analisi del linguaggio e delle metafore.
Ultima cosa che mi ha molto colpito il fatto che la formzione diventa pleonastica. In che senso? La formazione - per come la intendo - lavora sul cambiare idea e sul mettere in discussione l'esistente, aiutando a vedere con la giusta distanza ciò che facciamo in modo automatico tutti i giorni. E proprio considerando il fatto che i temi della complessità sono così poco consociuti la formazione diventa fondamentale...
Stefano Pollini
Caro Stefano,
RispondiEliminainnanzitutto:grazie per le tue osservazioni/domande. Esse meritano una risposta approfondita. Parte di essa sarà contenuto nel prossimo capitolo che diffonderemo in settimana. Solo qualche piccola anticipazione. Immagina due operai che devono cambiare insieme un pezzo. I loro comportamenti dipendono dalle relazioni tra di loro che dipendono a loro volta dalle loro esistenzialità profonde e dai loro sistemi cognitivi. Di tutte questa cose non si può sapere nulla. La ragione principale è che le "analisi conoscitive" non esistono in un sistema umano. Se un osservatore prova ad analizzare un sistema umano, le conclusioni a cui arriva riguardano la sua relazione con il sistema analizzato. E sono oggetto di interpretazioni soggettive. Questo significa che anche gli impliciti e le credenze profonde che si riuscisse a vedere sono in realtà proiezioni del guardare dell'osservatore.e che importanza vuoi che abbiano le proiezioni di un estraneo? La formazione, fatta da un formatore esterno, più è intensa, più influisce in un modo inconoscibile con la vita organizzativa. L'unica formazione che ha senso è quella che fa il Capo ai suoi collaboratori. Questo significa che il mestiere del formatore deve scomparire? Come lo si intende oggi e più lo si intende in modo "nobile", più deve sparire.
Mi scuso davvero per le due battute su temi importanti. Ma riflessioni più complete le trovi nel capitolo che riguarda la visione quantistica dell'organizzazione (che non ha nulla a che vedere con discorsi probabilistici) e nel capitolo che pubblicheremo venerdì.
Grazie ancora ed un cordiale saluto
Francesco
Lo trovo molto interessante e naturalmente lo condivido. Penso però che manchi una visione logica delle procedure e dei comportamenti. Non so spiegare bene, perché non sono una consulente ma una persona che esegue direttamente il lavoro, ma sostengo che una buona organizzazione possa fare molto. Il mio parere é che sia necessario comunque un capo (un regista) e che gli altri eseguano, ma in modo sinergico. Ritengo che la cultura come conoscenza di se stessi per comprendere gli altri e, che per eseguire un certo lavoro sia necessario vederlo dal di fuori, obiettivamente e razionalmente (per trovare la strada migliore), non possa essere prerogativa di uno soltanto. É vero che il comportamento informale genera i risultati ma a mio avviso genera anche infelicità, fatica e una mole di lavoro esorbitante e ingiustificata.
RispondiEliminaCinzia Tiberto