di
Francesco Zanotti
Oggi
il dibattito sulla diversità rischia di essere formale e non sostanziale. Questo
comporta che il rispetto della diversità sembri un valore da proteggere
formalmente e con fatica: con le regole o con la sensibilizzazione. In questo
modo però alle imprese (ai capi che le
guidano) sembra, anche questo come molti altri anche se non è politicamente corretto
ammetterlo, sempre più un ulteriore vincolo costoso.
Se invece che della forma si inizia a dibattere sulla sostanza delle diversità, si
scopre che alle imprese conviene e di molto, non solo proteggere, ma stimolare
e valorizzare la diversità. E’ l’investimento a più alto ritorno.
Facciamo
degli esempi.
Partiamo
dalle diversità conosciute. Esse sono sostanzialmente: diversità di genere, di
provenienza geografica, di religione e di età.
Consideriamo
la più difficile da “combattere”: la diversità di generazione (di età). Oggi forse
non è considerata neanche una diversità da proteggere. Anzi. Chi non sta
cercando di praticare la politica: largo ai giovani?
Bene per
andare nel profondo (quindi nella sostanza) di questa diversità basterebbe
pensare che il processo di sviluppo del cervello di una persona fa si che le
prestazioni cognitive di un anziano non siano inferiori a quelle di un giovane.
Ma solo diverse e complementari. I giovani riescono a concentrarsi maggiormente
sui dettagli, mentre le persone mature riescono molto meglio a “pensare in
grande”: a fare collegamenti tra idee, a condensarle in disegni complessivi. Cosa
conviene all'impresa? Conviene disporre di un mix generazionale il più articolato
possibile per disporre di modalità di pensiero le più ricche possibili. La politica
del “largo ai giovani” priva le imprese di capacità di sviluppare visioni,
progetti strategia complessive. Come politiche gerontocratiche privano le
imprese di sguardi sulle trasgressioni tecnologiche, metodologiche, sociali
etc.
Ma parliamo
anche delle diversità, quindi, delle discriminazioni sconosciute, ma
diffusissime, profonde e devastanti che impattano ogni giorni su efficacia,
efficienza, qualità, compliance e benessere. Continuo con la strategia della
esemplificazione.
Lo sguardo
è alla base dell’organizzazione. All'interno: dove si produce. All'esterno:
dove si vende. Lo sguardo è ai pensieri ed ai comportamenti di coloro che vendono e
producono. Che costruiscono o non costruiscono efficacia, efficienza, qualità
compliance e benessere.
Prendiamo
un gruppo di lavoro. In un gruppo di lavoro si sviluppano molte dinamiche tra
le quali vi è anche la creazione di un capro espiatorio. In molti gruppi svolge
la funzione essenziale di parafulmine di tutto quello che non funziona. Peggio:
diventa il riferimento fondamentale per i pensieri e l’azione delle persone del
gruppo. Uno degli obiettivi che il gruppo cerca di raggiungere, per raggiungere
il quale investe energie temporali, cognitive ed emotive è quello di dimostrare
che Giovanni (chiamiamo così il capro espiatorio) ha veramente la colpa di
tutto quello che accade. Se non si fa questo il mito del capro espiatorio non
regge. Perché regga è necessario dimostrare ogni giorno, in ogni occasione quanto
Giovanni sia imbranato o incompetente o lavativo. Giovanni allora avrà come
chiodo fisso quello di difendersi, di dimostrare il contrario.
Il
generare un capro espiatorio è un atto di discriminazione profonda che non
appare, che non si può interdire con norme o con “prediche” (non è bello, non è
giusto discriminare Giovanni), che la dirigenza dell’impresa non vede e non può
vedere, ma che costa moltissimo perché distoglie energie crescenti ad attenzione, efficacia, efficienza, qualità, compliance e benessere. E’ un atto di
discriminazione profonda che mina alla radice la capacità dell’impresa di
generare valore.
Ma come
promuovere e valorizzare la sostanza delle diversità? In tempi brevi e con
costi irrisori, in modo che si traduca immediatamente in un booster di
sviluppo?
La nostra
risposta alla prossima puntata.
Il tema mi interessa particolarmente e quindi aspetto con ansia il prossimo post.
RispondiEliminaIntanto mi piace sottolineare un aspetto della parola "rispetto".
“Rispettare l’altro e le sue differenze”, significa ritenere che l’altro possa avere ragione anche se io non sono d’accordo; per rispettare l’altro devo capire il suo linguaggio, mettermi in sintonia con lui, ascoltarlo. E ascoltare, ascoltare in modo attivo significa mettersi nei panni dell’altro, assumere il suo punto di vista; significa, quindi, fare spazio all’altro dentro di noi, permettere all’altro di entrare in noi. È un esercizio che non può non suscitare un forte conflitto interno, perché ascoltare l’altro significa, almeno in parte, togliere spazio a noi stessi, alla nostra autonomia, al nostro modo di vedere il mondo e richiede un grande sforzo. La pratica del dialogo e della valorizzazione delle differenze è fonte di sviluppo solo se se ne accetta e se ne riconosce l’alto contenuto conflittuale che comporta per gli attori in gioco: il lasciarsi “penetrare” dall’altro e il mettere in gioco le proprie certezze. Se si nega il conflitto, e quindi l’incontro, non c’è “valorizzazione dell’altro” o crescita personale, ognuno rimane nella propria posizione iniziale a grande distanza dall’altro. È questo il rischio che si può correre con un “eccesso di rispetto per l’altro”. “Rispetto” è un termine che si usa nella scherma per indicare la giusta distanza per iniziare il duello, una distanza che viene appunto definita “distanza di rispetto”. Il rispetto dell’altro, e quindi una certa distanza, è fondamentale per costruire e permettere un buon incontro: il problema si ha quando c’è un “eccesso di rispetto”. L’eccesso di rispetto richiama ad una distanza di sicurezza che mi mette al riparo dall’incontro con l’altro, evitando il rischio di un incontro che può mettermi in pericolo e in discussione: in questo caso il rispetto non è ascolto, accoglienza, ma distanza, separazione, non ascolto. A volte quando c'è un grande rispetto per gli altri, in realtà c'è una grande distanza. Non c’è ascolto, messa in discussione della propria posizione, ma solo negazione dell'altro.
Stefano P.