di
Luciano Martinoli
Periodicamente torna alla ribalta il tema della partecipazione. Dall’azienda alla politica è tutto un fiorire di suggerimenti sul come far “partecipare” gli altri: i dipendenti, i cittadini, gli studenti, eccetera. Tutto è focalizzato però sulla tecnica di partecipazione, il “come”, e non sul “cosa” bisogna partecipare. Il messaggio sottinteso di queste “tecniche” è che si può far partecipare chiunque a qualsiasi cosa, una questione esclusiva di tecnica appunto. Come se si potesse imparare ad innamorarsi prescindendo dalla persona amata, riuscire in una attività indipendentemente dall’interesse che se ne ricava, digerire bene qualcosa a prescindere da ciò che si ingerisce.
E’ possibile? Ovviamente no, e allora perché si continua a prestare attenzione a tali tecniche?
La risposta risiede nel modello di comunità umana che sottintendono, lo schema che si usa per immaginare una comunità di persone: un insieme di parti a volontà limitata, o, per semplificare, senza volontà propria, in altre parole una macchina. Per un auto non rilevante percorrere una strada in campagna o una in riva al mare. Se le caratteristiche della strada sono uguali, in termini di pendenza, qualità della carreggiata e pochi altri parametri, è del tutto indifferente il paesaggio, lo scopo del viaggio, la tipologia di passeggeri trasportati.
Le persone, noi tutti, siamo disposti a “partecipare” (dal latino partem capere prendere una parte) a qualcosa sulla quale vi sia davvero la possibilità di “prendere una parte” e, da questo, esserne un pezzo. Se ciò viene negato, perché la parte presa non c’è più (annullata, modificata, stravolta da altri) viene a mancare il presupposto essenziale della partecipazione e, conseguentemente, le persone non partecipano più.
In un recente incontro, nel quale presentavamo il nostro metodo di "costruzione sociale", che realizza una partecipazione profonda in quanto considera tutti gli aspetti legati alla partecipazione, il rappresentante di una grande azienda esprimeva questo dubbio: lo abbiamo già provato anche noi, non funziona. All’inizio ci può essere anche dell’entusiasmo ma poi, col tempo, tutto tende ad appiattirsi, le persone alla lunga se ne fregano.
Ad una più attenta indagine di ciò che era successo emerse una caratteristica importante: la partecipazione era “per finta”, ovvero alle persone veniva sì chiesto di dare il proprio contributo alla definizione di nuove procedure e regole di lavoro, ma poi, ben presto, divenne chiaro che il loro fosse un semplice parere non vincolante, che i capi avevano l’ultima parola e che modificavano, anche sostanzialmente, ciò che i singoli avevano proposto. Altro che partecipazione!
Insomma in breve tempo tutti capirono che si trattava di una, sicuramente non voluta ma anche ingenua, sorta di manipolazione: faccio vedere che potete dire la vostra, ma poi si fa come dico io. Come potrebbe mai funzionare una cosa del genere con persone normali? Chiunque sentirebbe puzza di “imbroglio” ai primi segnali e pianterebbe lì la “partecipazione”... come puntualmente poi accade.
La vera partecipazione allora richiede una decisione importante iniziale, realizzare uno scambio: dare potere per ricevere consenso. Decidere, volta per volta, cosa cedere ma cedendolo per davvero, senza vincoli o ripensamenti, richiamando la responsabilità delle persone (se si prescinde da questa allora cadono i presupposti per la partecipazione ed è ancora più evidente la “finta”) in tutte le fasi di una reale partecipazione, consentendo la realizzazione di ciò che è stato progettato.
Inoltre è bene ricordare che, partecipazione o meno, l'organizzazione ha un suo autonomo processo evolutivo, non sta ferma ad attendere le gentili concessioni del management. Questo spazio, l'organizzazione informale, potrebbe essere il vero territorio dello scambio su menzionato, ma anche un terreno dove arriva l'ispirazione per la parte formale dell'organizzazione.
Inoltre è bene ricordare che, partecipazione o meno, l'organizzazione ha un suo autonomo processo evolutivo, non sta ferma ad attendere le gentili concessioni del management. Questo spazio, l'organizzazione informale, potrebbe essere il vero territorio dello scambio su menzionato, ma anche un terreno dove arriva l'ispirazione per la parte formale dell'organizzazione.
Con questi presupposti si può realizzare una partecipazione. In caso contrario si prendono in giro le persone con dispendio di tempi, denari ma, cosa più importante, perdita di credibilità, stima e fiducia, le risorse più preziose, forse uniche, che deve possedere una classe dirigente per esercitare una qualsivoglia forma di governo su una qualsiasi comunità di persone.
la partecipazione era “per finta”, ovvero alle persone veniva sì chiesto di dare il proprio contributo alla definizione di nuove procedure e regole di lavoro, ma poi, ben presto, divenne chiaro che il loro fosse un semplice parere non vincolante'
RispondiEliminaQuesta frase del tuo post mi pare il punto centrale (andrò a commentare anche direttamente sul blog).
Se la partecipazione è solo uno strumento per generare consenso, ma non porta a nessuna effettiva delega di un potere, allora è poco diversa da un imbonimento.
In quanto tale, alla lunga inutile, e dannosa per chi percepisce di aver perso tempo.
Per questo è fondamentale concorare:
- su cosa si sta decidendo
- quali saranno gli effetti della decisione (un consulto, delle linee di indirizzo generale che dovranno essere seguite, un vera e propia scelta tra alternative diverse che risulterà vincolante, ...)
- chi decide
Altrimenti, come dico io, è 'fuffa'.
Grazie di aver condiviso questa rifessione Luciano, sono temi non facili in un periodo in cui partecipare è di moda, e farsi domande serie sul perchè e sul come.. molto meno.