di
Luciano Martinoli
Il tema dei "Big Data" è sempre più presente sui media. Per chi volesse una buona definizione, almeno per gli usi aziendali, suggerisco questo breve ma rigoroso articolo del Prof. Pasini della SDA Bocconi.
Mi ha colpito, invece, un articolo apparso recentemente sul sito della BBC inglese.
L'ho interpretato come un segnale forte e circostanziato di allarme proprio per i Direttori del Personale, coloro che devono salvaguardare il patrimonio aziendale costituito dalle persone e dall'organizzazione, contro questa e anche altre più subdole minacce, e cercare sul mercato e diffondere al proprio interno strumenti per liberare le enormi potenzialità esprimibili.
Consentitemi di approfondire il tema dalle fondamenta, guidato da alcuni spunti sollevati dall'articolo.
Non c'è dubbio che una analisi di dati, raccolti in un certo ambito, possa evidenziare collegamenti, simmetrie, correlazioni che al semplice sguardo non si colgono, sopratutto se la base dati di partenza è vasta.
Cosa si può costruire con tali risultati?
Certamente miglioramenti su cosa esiste, un piano tariffario, una procedura antitruffa, una offerta di un prodotto e altro, ma sempre nell'ambito del "miglioramento di ciò che già c'è".
I "Big Data", per definizione, sono "dati" (che non a caso in italiano sono identificati dal participio passato del verbo dare) e dunque riguardano ciò che è accaduto.
Giustamente l'autore dell'articolo sottolinea che "i big data, per necessità, guardano indietro; potete solo analizzare ciò che è accaduto in passato, non che cosa potete immaginare nel futuro".
Ma supponiamo per un momento che i fautori dei big data, quelli più estremi, abbiano ragione; che le sorti del mondo siano nascoste nelle pieghe dei triliardi di informazioni ormai disponibili. Rispolveriamo il non ancora del tutto seppellito, sfortunatamente, "determinismo onnisciente", ape regina che non consente rivali e che impone la sua dittatura di essere pensiero unico. Che cosa mai otterremo dalle scoperte delle verità fornite dai big data? Prestazioni aziendali tipiche da best practices, ovvero quello che già fanno tutti quanti gli altri. Nulla di peggio ma senz'altro nulla di meglio. Tutti alla pari. E sì, perchè se l'analisi dei big data è disponibile a tutti, tutti possono scoprire ciò che hanno da dire. Infatti "le aziende che consentano ai big data di dominare i loro pensieri e lo stile di management non saranno quelle che cambiano le regole del gioco del loro mercato."
Dai big data non nascono big ideas.
Ma andiamo avanti, per assurdo, e supponiamo che i big data mantengano le loro promesse sul "futuro". Sveleranno dunque delle evidenze che, nell'esperienza dell'autore dell'articolo e della mia, "non sono sufficienti per motivare le persone all'azione" (le scritte del fumo dannoso hanno annullato la vendita di tabacco? Le sanzioni stradali hanno azzerato i comportamenti errati alla guida? Le pene di morte, comminate da millenni a tutte le latitudini, hanno estirpato la piaga degli omicidi?).
L'autore conclude, giustamente, che "l'incapacità di capire o catturare l'elemento umano nel business è il più grande pericolo che viene dai big data". Ma aggiungerei che tale incapacità è il più grande pericolo che viene dal management stesso, concentrato nel perseguimento e nell'applicazione di quel pensiero unico "macchinino" che sta mostrando tutta la sua fallacia con la perdurante crisi che stiamo vivendo (e dalla quale non ne usciremo se prima non rinunciamo ad esso).
Ecco, forse la verità sui big data è quella che non possono fornirci Big Idea. Un analisi big data non riconoscerebbe mai un Einstein.
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