di
Francesco Zanotti
Si tratta di un
brano tratto da L’uomo senza qualità di Robert Musil. L’ho trovato citato nel
libro di Telmo Pievani La vita inaspettata pag. 197.
Lo riporto
sostituendo “storia” con “organizzazione”. A proposito e pensando al libro di
Pievani (ma anche a quello di M. Piattelli Palmerini e J. Fodor Gli errori di Darwin): la teoria
dell’Evoluzione e le sue possibili “evoluzioni” (anche la teoria dell’evoluzione
evolve) hanno molto da dirci.
Ma ecco il testo
di Musil con la sostituzione di cui sopra.
“Il cammino dell’organizzazione
dunque non è quello di una palla da bigliardo che, una volta partita, segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va
bighellonando per le strade e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di
persone o da uno strano taglio di facciate, e giunge infine ed un luogo che non
conosceva e dove non desiderava andare. L’andamento dell’organizzazione è un
continuo sbandamento. Il presente è sempre un’ultima casa al margine, che in
qualche modo non fa più completamente parte delle case della città.”
Come pensiamo di governare nuvole con l’attuale management direttivo che guida le attuali teorie
e prassi manageriali, anche le meno “meccanicistiche”?
Nel seminario
del 26 settembre dove presenterò in anteprima il mio libro Invece del Change
Management: per un’etica ed un estetica dello sviluppo delle organizzazioni,
la teoria della evoluzione avrà un ruolo importante per spiegare i processi di
auto evoluzione di una organizzazione che la fa molto simile alla nuvola di
Musil.
Questo post mi fa venire in mente mi fa rilfettere anche sulla quantità enorme di informazioni a disposizione di tutti. Informazioni che sono accessbili sono nel momento in cui qualcuno le raccoglie e gli dà forma. Il libro di Musil è un classico del '900, ma è grazie al bellissimo libro di Telmo che questa frase torna in vita.
RispondiEliminaDiventa sempre più fondamentale, connettere, mettere insieme informazioni e saperi diversi. In altre parole: suparare lo specialismo che ci rende ciechi.
Stefano