di
Francesco Zanotti
Sia il Sole 24 Ore (a firma di Francesco Prisco) che il Corriere delle Sera
(a firma di Dario Di Vico) parlano dell’esperienza Smart working (chiamato
lavoro agile) di Barilla.
Ovviamente da due articoli di giornale (che tra l’altro si somigliano
molto) non è possibile formulare un giudizio sull’esperienza Barilla. Anche se
qualche dato mi sembra significativo. Ad esempio, il fatto che proprio i più giovani
siano i meno aperti a questa esperienza. Ad esempio, il fatto che siano più aperti
quelli che abitano più lontano dal lavoro.
Ma colgo le notizie riportate in questi articoli per fare qualche
osservazione sul tema.
Innanzitutto occorre capire cosa sia un’organizzazione. Essa ha un aspetto
procedurale che viene progettato dall’alto: l’organizzazione formale. E un
aspetto informale che emerge dal basso. Cosa influenza i comportamenti delle
persone? Li influenza l’organizzazione informale che essi stessi costruiscono,
avendo come vincolo l’organizzazione formale. Ovviamente, poiché la performance
è generata dai comportamenti delle persone, la sua qualità dipende dalla
qualità della organizzazione informale. Non dipende da incentivi o etero-motivazione.
Poi occorre capire come si fa a governare una organizzazione. Ovviamente non
basta scrivere procedure, ma occorre “governare” l’emergere spontaneo, autonomo
dell’organizzazione informale. E ’necessaria una modalità di Governo che fa
impallidire nella banalità gli ideali manageriali della leadership, della motivazione.
Per non parlare del controllo. Occorre fare emergere comunità di lavoro e
progetto che aumentino la qualità della organizzazione informale.
Detto questo, come inevitabile premessa (come si fa a parlare di uno strumento
se non si sa a cosa deve servire?), parliamo delle tecnologie. Esse devono
servire a generare comunità di lavoro, di apprendimento sociale e di progetto
più intense e vitali.
Non possono servire a fare il lavoro di prima in modo più comodo o
teoricamente più efficiente.
Il rischio è che si pensi e si convincano le persone che l’organizzazione
sia fatta di procedure, di comportamenti di lavoro prestabiliti che occorre
fare con la minor fatica e la massima efficienza. Il rischio è che si distrugga
quel reticolo di cognizioni, relazione e antropologie che costituisce l’organizzazione
informale che, in fondo, genera il senso dell’impresa.
Guardando le cose da questo punto di vista non sembra più sorprendente che i
più giovani siano i meno aperti allo smart work: sono quelli che (per fortuna)
hanno più voglia (bisogno) di comunità di lavoro, apprendimento e progetto.
Non sorprende che lo accettino quelli che abitano lontano dall’impresa. Pensano
che l’organizzazione non sia una comunità di lavoro, di apprendimento e di progetto.
E non valga la pena di un viaggio per vivervi dentro.
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