"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

domenica 27 settembre 2015

Campo (e Bosone) di Higgs per comprendere persone, organizzazione e strategia

di
Francesco Zanotti

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Noi siamo le nostre risorse cognitive.
Vediamo quello che esse ci permettono di vedere. Costruiamo i “ragionamenti” che esse ci permettono di fare.
La ricerca, nei diversi campi dello scibile, sviluppa sempre nuove risorse cognitive. Esse sono una fonte perennemente rinnovantesi di “strumenti” che permettono alle classi dirigenti di migliorare le loro capacità di governo dei “sistemi” umani: dalle imprese alle istituzioni.
Supportare le classi dirigenti nell’accedere alle nuove risorse cognitive è una funzione sociale essenziale.

Il Campo (Bosone) di Higgs come risorsa cognitiva
Non ha importanza in quale area dello scibile sia stata sviluppata una risorsa cognitiva. Essa può essere usata anche in altri ambiti. Obiettivo di questo paper è di fare vedere come la teoria del Campo (Bosone) di Higgs non serva solo a capire tante cose del mondo delle particelle elementari, ma anche come si formano le identità di persone, gruppi organizzativi e imprese.

Cosa è il Campo (fatto di Bosoni) di Higgs?
Il campo di Higgs (una schiuma selvaggia di bosoni di Higgs) è (sembra essere) diffuso in tutto l’universo. Serve a dare massa (identità) alle particelle elementari.
Le particelle elementari per loro natura non hanno massa. Quando si muovono attraverso il campo di Higgs (sempre, visto che è diffuso in tutto l’universo) vengono frenate dal campo stesso. Diventano pesanti, acquistano la loro massa.
Il Campo di Higgs fornisce la loro massa, ma poi le particelle di questa massa ne fanno quello che vogliono.

Oggi il management agisce come il Campo di Higgs. Vediamo i due casi di organizzazione e strategia.

Higgs e l’emergere della organizzazione informale
Il manager è come il campo di Higgs. Egli fornisce energia a tutti coloro che stanno dentro l’universo dei confini organizzativi. Ma poi le persone decidono autonomamente cosa farne di questa energia. Si costruiscono ruoli e gruppi organizzativi, emergono comportamenti che il manager né può prevedere né può controllare.
Perché fornisce energia, ma non può controllarne l’uso? Perché vuole dare direttive e quindi si considera altro rispetto all’organizzazione. Non è particella tra le particelle. Potrebbe governare l’uso dell’energia che fornisce solo se imparasse a governare processi di emergenza autonomi e ricondurli a sintesi.

Higgs e l’emergere della strategia
L’imprenditore è come una particella che con la sua azione di governo catalizza massa da un fondo che è costituito dalle persone che vivono nella società. Questa massa si manifesta nell’identità strategica dell’impresa e del suo sistema di relazioni con l’esterno, che, complessivamente, definiamo strategia.
L’imprenditore non può sapere a priori che tipo di identità strategica e sistema di relazioni emergeranno dalla società. Che cosa vuol dire allora “fare strategia”? Vuol dire governare processi di emergenza di un imprevedibile che, però, alla fine, deve sembrare a tutti bello e giusto.

L’imprenditore fa allora il contrario del management: non dirige, ma si compromette. Per questo riesce a generare e governare l’impresa.

E le persone?
Non me le sono dimenticate! Anche loro “sono” particelle cognitive che acquistano identità interagendo con l’immenso Campo di Higgs degli altri, fuori e dentro una impresa. Poi della loro identità ne fanno (scelgono i comportamenti) quello che vogliono. Non pensate si possano guidare con leadership e motivazione.


martedì 22 settembre 2015

Studi scientifici dimostrano che … Ma va …

di
Francesco Zanotti
Quante volte si sentono consulenti sostenere le proprie teorie dicendo che “Studi scientifici hanno dimostrato che …”?
Quasi a volere dimostrare chele cose che vendono non si possono non comprare…

Bene, sono affermazioni destituite di ogni fondamento. Vendete e comprate pure quello che volete, ma non travisate la scienza.
Comincio ad illustrate la mia tesi.

Ma come deve essere uno studio scientifico?

Alla base ci deve essere una legge che governa i rapporti di causa ed effetto. L’esperimento ha proprio l’obiettivo di verificare se e in quale contesto questa legge è valida. Per raggiungere questo obiettivo occorre che input ed output siano esattamente definiti e sia possibile misurarli per verificare se la legge è vera. Poi occorre che misure e verifiche siano ripetibili. Intendo dire che chiunque le faccia, nel contesto previsto dalla legge, deve ottenere gli stessi risultati. Solo in questo caso è possibile usare l’espressione “Studi scientifici hanno dimostrato che …”. Diversamente si tratta di millantato credito. Mi scappava da scrivere “cialtroneria”, ma non lo scrivo …

Come sono gli studi scientifici nel management?

Prima di parlarne mi si permetta di dare una idea della qualità come degli studi “scientifici” (fatti da accademici e non da improvvisatori) su temi come “Learning, memory e personality”, temi che hanno certo a che fare col management. Su “New York Time International Weekly del 14 settembre 2015 si parla del tentativo, durato un anno, di riprodurre 100 studi scientifici sui temi precedenti. Il risultato è stato che più della metà non erano riproducibili. Cioè, non avevano alcun valore.

Torniamo agli studi scientifici nel management. A chiunque usi l’affermazione “studi scientifici hanno dimostrato che … “ chiedete le seguenti cose.
Di quali studi si tratta? Esistono studi che hanno generato risultati discordanti?
Chiedete poi che definiscono input, output e la legge che li lega (quella che sostengono essere stata dimostrata dagli studi scientifici). Da ultimo chiedete di riprodurre l’esperimento.

Verificherete immediatamente che l’affermazione “Studi scientifici hanno dimostrato che … “ si scioglie come neve al sole.



venerdì 18 settembre 2015

Quali attività sono antiscientifiche?


di
Francesco Zanotti

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Il management, soprattutto le idee e le pratiche di gestione delle risorse umane e del cambiamento, vivono in una campana di vetro cognitiva. Più specificatamente, si sono sviluppate senza alcun contatto con i risultati conseguiti dalle scienze naturali ed umane dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi.
Il risultato è che molte di queste idee e pratiche sono, in modo evidente, scientificamente sbagliate. Mi si lasci dire “anti-scientifiche”.

Solo per fare qualche esempio.
Un esempio generale: le “pratiche” che si fondano sulla pretesa di una analisi “oggettiva” (se l’analisi non è oggettiva non è una analisi) dell’uomo o della organizzazione (dalla selezione, all’analisi dei valori, del clima o delle competenze) sono scientificamente insensate.

Un esempio più specifico: gli interventi sulla sicurezza sul posto di lavoro utilizzano il famoso approccio BBS che è anch’esso scientificamente insensato.

Non sorprende, quindi, che queste pratiche non funzionino. Anzi, che generino leggende metropolitane come l’affermazione “le resistenze al cambiamento sono naturali”. Esse invece sono generate proprio da idee e pratiche di cambiamento che è facile dimostrare essere davvero anti-scientifiche.

Il fatto che le pratiche in uso non funzionino non favorisce lo sviluppo delle persone e i risultati delle imprese. E neppure favorisce l’affermarsi del ruolo di coloro che di persone e di organizzazione si occupano.

Una proposta di verifica: perché non valutare quali tra le idee e le pratiche di gestione delle risorse umane e della organizzazione che si stanno usando presso la sua impresa, sono antiscientifiche?

Mi rendo conto che questa proposta può sembrare provocatoria, che la prima tentazione di ogni HR manager (o consulente) potrebbe essere quella di non “rischiare”: perché dovrei rivelare che è antiscientifico qualcosa di quello che sto facendo?

Beh, la risposta è semplice e forte.
Innanzitutto, si possono individuare le strade per aumentare velocemente, continuamente e significativamente le prestazioni di persone e di organizzazioni proprio usando le conoscenze scientifiche più avanzate.
Poi, il raggiungere questi obiettivi riqualificherebbe il ruolo di chi si occupa di persone ed organizzazione.
Da ultimo, non si tratta di rischiare, ma soltanto di anticipare i tempi. Prima o poi, questo confronto con la scienza sarà inevitabile.


domenica 13 settembre 2015

Cybersicurezza e risorse umane

di
Francesco Zanotti

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Oggi su Nova24 del Sole24Ore si parla di Cybersicurezza (Le spie dentro i nostri computer) e il discorso finisce subito sulle risorse umane. Infatti, come dice Eugene Kaspersky, oggi i pericoli vengono dall’interno delle imprese (dai dipendenti). Poi aggiunge: le tecnologie di sicurezza non bastano. E’ necessario migliorare la selezione dei dipendenti.
E già vedo tanti professionisti fregarsi le mani.
Se non che, occorre, come sempre, interrogare il complesso delle scienze naturali ed umane per capire se può esistere una metodologia di selezione che possa funzionare.

E la risposta che si ricava è: no!
Infatti, se prendete un pistone sapete cosa misurare per capire se “fitta” esattamente con un cilindro. E basta misurarlo una volta. Non vi aspettate che il cilindro ingrassi a causa del troppo olio mangiato … Sapete, è immerso nell’olio, la fatica del su e giù, la tentazione di abboffarsi di olio potrebbe vincerlo. Ma voi siete sicuri che il pistone non si farà tentare.

Nel rapporto tra essere umano ed organizzazione non si può calcolare un “fit” ottimale. E anche se lo si trovasse il giorno dopo è cambiato.
Non si può trovare un fit ottimale perché non esiste un modello di essere umano che riesca a dire quali sono le variabili che determinano le scelte e i comportamenti. Cioè. Non si sa “come è fatto” e “come funziona” un essere umano. Se non si sa come è fatto e come funziona, non si può sapere cosa misurare. Quello che si misura oggi è meno utile del sapere quale sia il suo numero di scarpe.
Se anche si sapesse cosa misurare, ogni processo di “misura” comporta una relazione umana tra misuratore e misurato. Questo significa che non si misura l’essere umano, ma la relazione con il misuratore. Ovviamente, se cambiate misuratore, cambiate la misura.
Se anche (e non è possibile farlo) si potessero superare le obiezioni precedenti, rimarrebbe il fatto che l’essere umano è contestuale: funziona diversamente in diversi contesti, non come il pistone che si muove sempre allo stesso modo. I suoi comportamenti dipendono dal contesto in cui si mette. E anche il contesto non è descrivibile. L’organizzazione non è fatta solo di procedure, ma anche da quella che si definisce organizzazione informale (da dove emergono i comportamenti) della quale né il selezionatore né il vertice aziendale sanno nulla. Di più, l’organizzazione informale e l’essere umano evolvono in modi non prevedibili.

Conclusione? Occorre cambiare prospettiva! Occorre imparare a gestire organizzazioni dove le persone hanno identità imperscrutabili e mille spazi organizzativi nel quale esercitare una loro libera iniziativa. Ovviamente non raggiungono questo scopo i metodi direttivi (come il Management by Objectives e le tecniche motivazionali). Lo spirito della nuova modalità di gestione è necessaria parte dal concetto di lavoratore progettuale. Ne abbiamo parlato abbondantemente in questo blog.

mercoledì 9 settembre 2015

Le comunità cognitivamente chiuse perdono di senso

di
Francesco Zanotti

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Il famoso economista Upton Sinclair, riferendosi alle classi dirigenti americane, affermava: “E’ difficile indurre un uomo a capire una determinata cosa quando il suo stipendio dipende dal fatto di non capirla.”. Si riferiva all'apparente ottusità di politici e finanzieri ad insistere sulla deregulation.
Frase ad effetto, ma sistemicamente scorretta. Cioè sbagliata.
Indugia al vezzo dell’accusa personale, mentre, invece, occorre riconoscere che le cause di fenomeni di questo tipo sono sistemiche.

Infatti, tutte le comunità cognitivamente chiuse non riescono a capire quanto avviene fuori di esse. Ma non per qualche interesse innominabile. Ma proprio perché sono cognitivamente chiuse.
La teoria dei sistemi parla di accoppiamento strutturale. Quando si cerca di comunicare qualcosa ad una comunità chiusa, questa comunicazione non viene presa “alla lettera”, ma solo come stimolo per confermare l'organizzazione del sistema.
Nel tempo, in ogni comunità questo si ripercuote negativamente sugli interessi dei partecipanti alla comunità chiusa che, piano piano, perde di senso nei confronti dell’ambiente esterno.

E’ quello che sta accadendo alla Comunità di manager e consulenti HR. Che si tratti di una comunità cognitivamente chiusa lo dimostra il fatto che è del tutto refrattaria alle conoscenze scientifiche, riguardino esse la scienze naturali ed umane. All’interno della comunità si è formato un sistema di conoscenze autarchiche che, però, per la maggior parte sono scientificamente insostenibili. Ma proprio perché non accettano il confronto con la scienza non vengono contestate.

Il problema è che davvero questa Comunità sta perdendo di significato. Lo sanno soprattutto i Direttori del Personale che non stanno vedendo aumentare il loro prestigio. Qualche importante imprenditore alla domanda “Che ruolo ha nella tua impresa il Direttore del Personale?” risponde candidamente che, semplicemente, non ha Direttore del Personale. Il problema esiste, è riconosciuto e si aggraverà prima lentamente e poi esploderà improvvisamente. Con ovvio danno per coloro che stanno tenendo la comunità refrattaria a nuove conoscenze.

Come detto, la colpa di quanto sta accadendo non è personale. Di più, la chiusura della comunità non comporta la chiusura degli individui. Essi, anzi, hanno sempre di più interessi culturali ricchi. Il problema è che quando entrano nella loro comunità di riferimento la struttura della comunità impedisce l’utilizzo di questa ricchezza.

La soluzione? Una soluzione sia per le persone che per le imprese? Aprire la Comunità di Manager e Consulenti HR. E come? Aggiungendo risorse cognitive a quelle in uso. Più concretamente accettare di valutare il patrimonio di conoscenze in uso attraverso l’uso delle più accreditate conoscenze scientifiche.


giovedì 3 settembre 2015

I manager non possono governare le organizzazioni

di
Francesco Zanotti

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Ogni gruppo umano costruisce la propria realtà in modo autonomo.
Quando arriva un input dall’esterno, il gruppo reagisce non certo realizzando quell’input, ma considerandolo una occasione, una risorsa per continuare il suo processo di creazione della sua realtà. L’input non riesce né a comunicare, né tanto meno ad imporre una direzione di sviluppo al sistema. Anche se il “contenuto” dell’input indicasse una indicazione precisa di futuro. Detto più brutalmente, date le indicazioni che volete, tanto non potranno essere realizzate. Serviranno solo ad innescare comportamenti del tutto imprevedibili. E non cambia questa realtà l’urlare forte o minacciare.
Con passare del tempo la reazione del gruppo sarà orientato a mantenere la sua identità. Le resistenze al cambiamento non sono individuali: sono frutto del relazionarsi continuo in gruppo.

Allora non si può governare un gruppo umano? Ad esempio, gruppi organizzativi? Certo che si può, ma occorre fare cose che pochi manager sono disposti a fare. La prima cosa è che per governare un gruppo umano occorre entraci dentro. Il che significa lasciare fuori ogni pretesa di “alterità” o peggio, di superiorità predefinita. Chi lo governa non può che essere “primus inter pares”. Ma questo status non può essere predefinito, ma va conquistato nel processo di creazione della realtà. La seconda, più impegnativa della prima è accettare che un processo di costruzione sociale della realtà cambia tutti coloro che vi partecipano. Ognuno é guidato al cambiamento personale profondo dagli altri. Forse addirittura si può arrivare a dire che essere riconosciuto come “primus inter pares” significa diventare i più bravi nel cambiare profondamente se stessi.
Quanto è assurda la figura del manager senza macchia e senza paura che guida tutti dove vuole lui.

Dovrebbero rendersene (e faremo di tutto perché accada) conto tutti gli azionisti delle imprese.