"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

sabato 27 febbraio 2016

La strategia segue l’organizzazione: la storia delle “Officine Reggiane”


di
Francesco Zanotti

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“Paradigma” è, forse, un parolone. Parliamo allora più semplicemente di “pensiero prevalente”.
Il pensiero prevalente è che l’organizzazione segua la strategia. Debba essere progettata per realizzarla. Debba essere finalizzata alla strategia.
Io penso che occorra invertire questo “paradigma”.
E per illustrare come questa inversione sia possibile, racconto la storia della OMI “Officine Reggiane”. E qualche altro.
Siamo negli anni 1949 e 1950. In quegli anni è nata dal basso una protesta vivace contro il processo di smantellamento di una industriale bellica che non si voleva riconvertire. Protagonista di questa “resistenza allo smantellamento” è stata la CGIL di Giuseppe di Vittorio.
Non si è trattato solo di un movimento di resistenza e di protesta. Gli operai si sono fatti carico di una proposta industriale precisa. Nata dal basso.

Nella OMI si è progettato e realizzato, da parte degli operai in lotta, un nuovo trattore chiamato R 60 che era “l’incarnazione della volontà di costruire un nuovo modello produttivo che sappia cerare strumenti in grado di innalzare la capacità di lavoro delle campagne:  industria ed agricoltura sono unite nel progetto …” di promuovere l’occupazione. La citazione è dal libro di Giuseppe Berta “la via del Nord”.
Quello della OMI non è stato un caso isolato. Anche in molte altre industrie occupate gli operai hanno “generato la strategia”. Altri due esempi (sempre citati dal Prof. Berta): alla San Giorgio durante l’occupazione gli operai hanno progettato e costruito una stampatrice meccanica, all’ILVA c’è la “colata della pace” e all’Ansaldo Meccanico il varo di un gruppo di turbine.

Questi sono casi in cui la convinzione che l’organizzazione dovesse essere strumento finalizzato alla strategia è stato invertito: sono le organizzazioni che hanno creato la strategia.

Poi cosa è accaduto? In un mondo ci blocchi contrapposti la ideologia ha rovinato tutto. Quelle esperienze non sono state viste come esempi di modalità di innovazione dal basso, ma come attacchi alla libera proprietà. E si sono spente.
Se invece di “esperienze di autogestione” fossero state chiamate, ad esempio, “esperienze di progettualità strategica sociale”, fossero state presentate come “contenuto” dell’espressione “strategicità delle risorse umane”, forse oggi avremmo un mondo migliore.
Ma siamo ancora in tempo a recuperare la figura del “Lavoratore progettuale”. Come dicevamo, nel 2012.
http://ettardi.blogspot.it/2012/02/lavoro-una-nuova-prospettiva-possibile.html

mercoledì 24 febbraio 2016

Smart working: il caso Barilla

di
Francesco Zanotti

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Sia il Sole 24 Ore (a firma di Francesco Prisco) che il Corriere delle Sera (a firma di Dario Di Vico) parlano dell’esperienza Smart working (chiamato lavoro agile) di Barilla.
Ovviamente da due articoli di giornale (che tra l’altro si somigliano molto) non è possibile formulare un giudizio sull’esperienza Barilla. Anche se qualche dato mi sembra significativo. Ad esempio, il fatto che proprio i più giovani siano i meno aperti a questa esperienza. Ad esempio, il fatto che siano più aperti quelli che abitano più lontano dal lavoro.
Ma colgo le notizie riportate in questi articoli per fare qualche osservazione sul tema.
Innanzitutto occorre capire cosa sia un’organizzazione. Essa ha un aspetto procedurale che viene progettato dall’alto: l’organizzazione formale. E un aspetto informale che emerge dal basso. Cosa influenza i comportamenti delle persone? Li influenza l’organizzazione informale che essi stessi costruiscono, avendo come vincolo l’organizzazione formale. Ovviamente, poiché la performance è generata dai comportamenti delle persone, la sua qualità dipende dalla qualità della organizzazione informale. Non dipende da incentivi o etero-motivazione.
Poi occorre capire come si fa a governare una organizzazione. Ovviamente non basta scrivere procedure, ma occorre “governare” l’emergere spontaneo, autonomo dell’organizzazione informale. E ’necessaria una modalità di Governo che fa impallidire nella banalità gli ideali manageriali della leadership, della motivazione. Per non parlare del controllo. Occorre fare emergere comunità di lavoro e progetto che aumentino la qualità della organizzazione informale.
Detto questo, come inevitabile premessa (come si fa a parlare di uno strumento se non si sa a cosa deve servire?), parliamo delle tecnologie. Esse devono servire a generare comunità di lavoro, di apprendimento sociale e di progetto più intense e vitali.
Non possono servire a fare il lavoro di prima in modo più comodo o teoricamente più efficiente.
Il rischio è che si pensi e si convincano le persone che l’organizzazione sia fatta di procedure, di comportamenti di lavoro prestabiliti che occorre fare con la minor fatica e la massima efficienza. Il rischio è che si distrugga quel reticolo di cognizioni, relazione e antropologie che costituisce l’organizzazione informale che, in fondo, genera il senso dell’impresa.
Guardando le cose da questo punto di vista non sembra più sorprendente che i più giovani siano i meno aperti allo smart work: sono quelli che (per fortuna) hanno più voglia (bisogno) di comunità di lavoro, apprendimento e progetto.
Non sorprende che lo accettino quelli che abitano lontano dall’impresa. Pensano che l’organizzazione non sia una comunità di lavoro, di apprendimento e di progetto. E non valga la pena di un viaggio per vivervi dentro.


domenica 21 febbraio 2016

Sono strategiche e le buttiamo fuori?

di
Francesco Zanotti

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Tutti coloro che si occupano di risorse umane sostengono che esse sono strategiche. Sono la ricchezza fondamentale per le imprese.
Bene, ma se è così, perché si sta cercando di buttare fuori le persone dalle imprese?
La risposta ufficiale è: ci costringe la competizione.
Ma è una riposta perdente, da sconfitti.
Certo se continuo a fare le stesse cose del passato, queste diventano meno interessanti, me ne chiedono meno e accettano di pagarle meno. Quindi, mi servono meno persone.
Ma se una impresa riuscisse a ridisegnare il suo sistema d’offerta proponendo al mercato prodotti e servizi di una nuova intensità di significato, allora vedrebbe aumentare il suo fabbisogno di persone.
Se poi pensate che la progettazione di nuovi prodotti e servizi potrebbe essere fatta proprio dalle persone, anzi, solo loro lo possono fare, allora il buttar fuori le persone diventa socialmente irresponsabile.
Il caso delle banche è emblematico: fanno processi di fusioni che sono sostenuti solo da leggende metropolitane (della metropoli degli alti palazzi del credito) e si costringono, sono costretti a buttar fuori le persone perché non vendono quali spazi di nuovi servizi potrebbero essere da loro erogati.
Detto diversamente, non bisogna decidere le strategie e poi vedere quante persone servono. Bisogna imporsi di assumere e poi scatenare la progettualità necessaria a  trovare il modo di impiegare queste persone. Se veramente si pensa siano strategiche. Cioè: abbiano un ruolo fondamentale nella progettualità strategica.


mercoledì 17 febbraio 2016

Guardare dentro il cannocchiale

di
Francesco Zanotti

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Rileggiamo la storia di Galileo e poi parliamo del management.

Per parlare di Galileo, riporto un brano dalla seguente pubblicazione.
Osservare il cielo. Cannocchiale ed occhi aristotelici ai tempi di Galileo.
A cura di Sandro Bulgarelli, Alessandra Casamassima, Francesco Gentiloni e Maria Paola Mascia. Pubblicato dalla Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”. Brano di pag. 9.

Il cambiamento di un paradigma è un processo complesso e difficile, nel corso del quale sono assai rilevanti le resistenze, ideologiche e psicologiche, dei sostenitori del modello in crisi. Di fronte alle osservazioni di Galileo le reazioni avverse da parte di molti astronomi si basarono su diverse e particolari argomentazioni. Martin Horki pubblica a Modena nel 1610 una “Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum”, sostenendo che gli astri medicei sono inesistenti come la quadratura del cerchio e la pietra filosofale. Quelle stelle non sarebbero altro che l’immagine raddoppiata, triplicata o quadruplicata di Giove a seconda dell’inclinazione del cannocchiale. Francesco Sizzi ritiene impossibile l’esistenza di quattro nuove stelle, per il semplice fatto che avrebbero portato a undici il totale degli astri, il cui numero necessario è sette. Cristoforo Clavio tace, Giovanni Antonio Magini si astiene, mentre Cesare Cremonini, semplicemente, si rifiutò sempre di guardare dentro il cannocchiale. L’opinione più diffusa era che le immagini viste attraverso le lenti fossero pura illusione e non corrispondessero a oggetti realmente esistenti. Qualcuno insinuò che Galileo fosse in realtà espertissimo nell’arte di creare effetti magici.

E il management? Oggi semplicemente si rifiuta di guardare dentro il “cannocchiale” delle scienze umane e naturali. E, così facendo, ripropone il management della leadership, delle competenze, della formazione, del controllo, della selezione, della pianificazione, dei valori. Amici dai ... che mal c’è a dare un’occhiatina dentro i cannocchiale? Galileo ha scoperto mondi straordinari.


domenica 14 febbraio 2016

Leggendo Luhmann: obiettivi e mezzi impossibili da collegare

di
Francesco Zanotti

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Si definiscono gli obiettivi e poi si cercano i mezzi migliori per raggiungerli. Guidati dalla razionalità di causa ed effetto.
Tutti d’accordo vero?
Invece …
Va beh innanzitutto, è diffusa la conoscenza/consapevolezza della razionalità limitata che impedisce il trovare una razionalità ideale. Il rapporto mezzi fini, cioè causa ed effetto è razionale .. solo pressappoco. E già questo dovrebbe insospettire.
Ma Luhmann dice di più. Dice che la scelta degli obiettivi è determinata da ragioni “interne” al gruppo che compie questa scelta. Tecnicamente: è un by-product dell’autopoiesi di questo gruppo.
E la scelta degli obiettivi ... idem come sopra. E’ guidata dall’autopoiesi interna del gruppo che compie questa scelta. E’ un by-product dell’autopoiesi di quest’altro gruppo.
Il rapporto tra questi due by-product? Del tutto casuale. A caso, non a causa.
(Niklas Luhmann. Organizzazione e decisione. Bruno Mondadori 2005 pag. 17-20)
Ora, però, il sospetto diventa più forte: ma perché si fa finta che la scelta dei fini e dei mezzi sia guidata da una razionalità infallibile? Forse perché conviene a chi fa questa scelta?
Speriamo di no! Speriamo che si continui nella retorica mezzi fini in buona fede.

Che fare in alternativa? Se davvero un manager credesse nella competizione dovrebbe cercare questa alternativa per piantarla di gestire attraverso falsi miti e dovrebbe tenersela stretta senza rivelarla ai concorrenti. E dovrebbe temere che i concorrenti la scoprano per primi.

venerdì 12 febbraio 2016

Il concetto di “emergenza”

di
Francesco Zanotti

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Uno dei concetti che caratterizza il pensiero di Luhmann è che l’organizzazione è frutto di processi di emergenza.
Ecco, con la parola “emergenza”, però, non si intende una situazione di pericolo imminente.
Non si intende quello che in inglese suona come “emergency”. Non si intende dire che l’organizzazione nasce dai guai, dalle situazioni difficili etc.
Si intende, invece, un processo di auto-emersione. Quello che in inglese si chiama “emergence”.
Dire che l’organizzazione è frutto di processi di emergenza significa sostanzialmente dire che l’organizzazione si costruisce da sola. E non perché il management è poco deciso, poco determinato, ma perché ogni sistema umano ha una sua autonomia ineliminabile.
Purtroppo, oggi il management non sa come fare a gestire questo svilupparsi autonomo dell’organizzazione. Non sa neanche che esista questo fenomeno. Se si parla di emergenza intende solo situazioni di guai.
Quindi, cerca disperatamente di gestire l’autonomia con direttività o manipolazione.  Ma, così facendo, cade nel paradosso dell’ordinare ad essere spontanei. Certo, non ottenendo rilevanti successi. E’ questa incomprensione dei processi di emergenza che rende così frustrante il fare il manager oggi.