"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

domenica 30 novembre 2014

Perché servono i consulenti?

di
Francesco Zanotti


Caro manager, se provi a fare un salto in una libreria qualunque ed hai il coraggio di non (e sottolineo il “non”) guardare la sezione dedicata al management che contiene quasi tutti esercizi autopromozionali, scoprirai potenzialità straordinarie.
In ogni area della conoscenza (dalla fisica alla biologia, alle neuroscienze su fino alla psicosociologia, verso la sociologia e l’antropologia) troveresti conoscenze che ti permetterebbero di capire perché il presente è così difficile e come superarlo.
Scopriresti, però, che non hai tempo di selezionare ed utilizzare personalmente tutta questa conoscenza … e, allora, scopriresti il ruolo del consulente. Certo non del tuo collega che hanno appena buttato fuori o che è appena andato in pensione e che cerca di riciclarsi. Ma il ruolo di un consulente professionale che si pone come interfaccia concretizzante verso la conoscenza. Tocca a lui presentarti le nuove conoscenze utilizzabili e spiegarti come utilizzarle. Utilizzarle tu e non lui.


giovedì 27 novembre 2014

Al di là della selezione amicale dei consulenti

di
Francesco Zanotti


Che la selezione dei consulenti a cui affidare incarichi di formazione, di gestione del cambiamento, di miglioramento della sicurezza, del benessere, di misurazione del clima, di definizione di valori e quant'altro avvenga per vie amicali, non ci sono dubbi.
Mi è capitato, addirittura, di osservare la faccia di più di un manager letteralmente terrorizzata di fronte alla evidenza che esistevano metodologie scientificamente più fondate, molto meno costose e maggiormente efficaci di quelle che usavano i suoi fornitori abituali. Ho assistito alle arrampicate (sugli specchi) più inverosimili pur di non cambiare.
Purtroppo, oggi sembra l’unica via praticabile. L’offerta è così dispersa, frastagliata, senza apparentemente alcuna possibilità di confronto e le aggressioni commerciali sono così fastidiose che alla fine il manager non può che affidarsi a chi conosce.
Non è certo, però, la via più efficace.
Cosa è possibile fare di altro? Noi abbiamo predisposto un servizio gratuito di Rating delle proposte consulenziali.
In cosa consiste? Abbiamo cercato, raccolto e sintetizzato i principali modelli e teorie che si occupano dell’uomo all'interno dell’organizzazione. Ne abbiamo fatto una mappa con la quale si può verificare quale tra due offerte quale è più completa. Cosa tralascia di considerare l’una o l’altra. Chi fosse interessato a fare un esperimento di rating, siamo a sua disposizione.

Ribadisco l’assoluta gratuita della cosa.

mercoledì 26 novembre 2014

Le persone come strateghi effettivi .. e articolo 18

di
Francesco Zanotti
Ma che ci fanno le persone in una impresa? Domanda scema, mi direte. La risposta è banale: lavorano. Sottintendendo: eseguono. E, invece, la domanda non è scema e la risposta che si considera ovvia è sbagliata.
Le persone, innanzitutto, inventano ogni giorno, attraverso i loro comportamenti di acquisto, produzione, erogazione e vendita, la reale strategia dell’impresa. Le strategie definite dall'alto sono così generali che, a mano a mano che scendono nell'organizzazione, devono venir interpretate. Perché sono più le domande che stimolano che le risposte che danno. E chi compie, alla fine, l’interpretazione sostanziale, quella che genera i comportamenti effettivi nei confronti dell’esterno, sono le persone che stanno alla base dell’organizzazione.
Di quello che pensano queste persone ai vertici non sanno nulla. Come non sanno quali sono i comportamenti che vengono effettivamente messi in atto. Cioè non conoscono quale sia la strategia effettiva che la loro organizzazione sta ponendo in essere.
Poi. Le nostre imprese hanno bisogno di innovazioni di sistema, non di banali innovazione tecnologiche che, alla fine, sono sempre imitative o imitabilissime. Ad esempio, non serve una nuovo modello di auto, serve una proposta radicalmente nuova, rispetto all'auto, come è attualmente pensata, alle nuove esigenze di trasporto individuale. Per costruire questo nuovo senso dell’auto non servono asettiche, episodiche ed artificiali ricerche di mercato. Serve vivere nella “carne” della società. E chi vive nella carne profonda di quella società che, poi, dovrà comprare prodotti e servizi sono, ancora una volta, le persone che vivono nelle periferie dell’organizzazione. Le persone come strateghi effettivi dell’oggi e del domani. Ed ora cominciamo pure a parlare di articolo 18 e quant’altro sta in questi giorni infiammando il dibattito politico e lo scontro sociale.


lunedì 24 novembre 2014

Il giudizio sui talenti è soggettivo. Cioè auto contraddittorio.

di
Francesco Zanotti


Sul gruppo di linkedin di AIDP si è aperta una discussione che mi sembra meriti di essere riportata nel nostro blog.
Si parla del bello e del buono della meritocrazia.
Ma io sostengo che la meritocrazia sia un concetto scientificamente ingiustificabile. Le ragioni sono così tante ...
Primo non esiste una unità di misura del merito. Se è così, come faccio a misurare il merito? Tutte le scienze umane stanno cercando di superare la voglia di misurare che è da lasciare ad un fisico classico. 
Secondo, quello che esprime una persona è contestuale. Quindi lo è anche il merito. Forse si può dire che se uno viene giudicato "immeritevole" la colpa è di chi lo guida.
Terzo, i comportamenti delle persone sono contestuali. Poi bisognerebbe chiarire se il merito è una qualche dote naturale o è frutto di impegno ...
Davvero si potrebbe scrivere un poema scientificamente fondatissimo contro il concetto di merito ...
Alla base occorrerebbe poi usare correttamente il concetto di misura.
Mi si dice che è vero che non esiste una possibilità di misurazione universale, ma ve ne sono di contestualizzate. Certo, ma per definizione non sono misure. Cioè operazioni che portano ad un risultato socialmente condiviso. Si finisce con dire che il giudizio di merito è soggettivo. Così distruggendo la possibilità di questo concetto. Lo si trasforma in un arma contro i nemici organizzativi.
Specificando, il misurare è quella operazione che, data una unità di misura, produce un risultato che è indipendente dal misuratore e contesto. Se si dice che un tavolo è lungo 5 metri, questo numero vale per tutti perché esiste un metro universale di riferimento e il tavolo è lungo 5 volte quel metro.
Se non esiste unità di misura universale non si può fare una misurazione. Si fa qualcos'altro (da specificare) che occorrerebbe chiamare in modo diverso, visto che è una operazione diversa da quella della misura. Se poi si vuole parlare di misura "soggettiva", beh allora anche il risultato che si misura è soggettivo.

Cioè il concetto di merito è soggettivo. Come credo dimostri l'esperienza: non esiste mai un accordo su quanto qualcuno ha meritato o demeritato. Quando si introduce la soggettività, si finisce sempre con l'arrivare al ... soggetto. E dire che il valore di una "cosa" (il merito) è soggettivo non è di alcuna utilità sociale. Cioè organizzativa ... Anzi genera conflitti perché tutti saranno convinti che loro non demeritavano. Mai sentito dire da qualcuno che ha demeritato? 

giovedì 20 novembre 2014

Una babele di linguaggi …

di
Francesco Zanotti


Se voi voleste scrivere un messaggio a tutti i popoli della terra, come fareste? Dovreste usare tutti i linguaggi esistenti. Come fa il Papa a Natale e Capodanno. Ad ogni popolo la sua lingua come parte fondante della sua cultura e della sua identità. Per capire e parlare ad un popolo occorre passare dalla sua lingua.
In ogni organizzazione si formano sistemi di risorse cognitive locali. Ogni gruppo organizzativo è caratterizzato da un proprio sistema di risorse cognitive locali. Ha un proprio linguaggio, ad esempio.
Queste risorse cognitive sono il filtro con il quale le persone del gruppo interpretano, decostruiscono e ricostruiscono (cioè danno senso) ai messaggi.
Anche il top management è caratterizzato da un proprio sistema di risorse cognitive con il quale pensa e si esprime. Non conosce ed usa nessun esperanto..
Arrivo alla domanda del titolo: ma se il top management non conosce i diversi sistemi cognitivi che vi sono nella sua organizzazione e non ha neanche consapevolezza delle risorse cognitive che usa lui, come può sperare di dialogare con la sua organizzazione?


martedì 18 novembre 2014

La voglia e la responsabilità della innovazione radicale

di
Francesco Zanotti


Capisco il bisogno dei manager HR di difendere il posto di lavoro. Ma non si può danneggiare la propria impresa per farlo.
Mi spiego. E’ ovvio che le nostre organizzazioni siano senza guida. Ne abbiamo parlato nell'ultimo post.
Ma questo sembra non importare a nessuno. La convinzione di un manager HR è: visto che nessuno si occupa della bottom-line, perché dovrei farlo io?
E così si continua a fare corsi, attivare progetti di cambiamento che fanno perdere tempo e soldi e che fanno danni.
Io credo che, prima o poi, serpeggerà le voglia di innovazione profonda. Qualcuno scoprirà la bellezza, la forza dell’innovazione profonda. Scoprirà che le conoscenze oggi disponibili permettono di gestire proprio la gente che lavora, laggiù nell'organizzazione dove si produce, si vende, si eroga.
La sperimenterà e scoprirà che genera risultati eclatanti.
Il primo è che partirà genererà una valanga: di licenziamenti dei manager che hanno rifutato di cercare innovazione profonda. Perché l’innovazione profonda diverrà una responsabilità. E si chiederà ai manager perché per anni si siano rifiutati di cercarla e sperimentarla.
E così la politica dello struzzo (mettere la testa sotto la sabbia della banalità per non affrontare la conoscenza) non riuscirà certo più a difendere il posto di lavoro.

E, poi, .. ma dai, ma che dignità è quella che rifiuta ogni innovazione perché ne ha paura?

venerdì 14 novembre 2014

Non facciamo più ..

di
Francesco Zanotti


Il luogo dove si produce, si eroga il servizio, si vende e si acquista, il luogo dove si mettono in pratica i comportamenti che, nel bene o nel male, generano i risultati è costituito dalla periferia dell’organizzazione.
Per governare i risultati di una organizzazione occorre governare i comportamenti che mettono in atto le persone che vivono nella periferia dell’organizzazione.

Come fa un top manager a governare la periferia della sua organizzazione?
La nostra tesi è che se utilizza gli strumenti manageriali classici oggi non può farlo.

Innanzitutto, si scopre che le periferie sono costituite da tante sociologie e antropologie complesse, le une diverse dalle altre, popolate da persone dotate di sistemi cognitivi altrettanto complessi e diversi tra di loro.
Ora, nessuna strumentazione metodologica può permettere di conoscere questa complessa realtà. La conclusione è che si deve governare senza conoscere cosa si governa.

Poi si scopre che non si possono neanche dare ordini diretti: in una organizzazione le persone sono dotate di ampi spazi di libertà. Detto più semplicemente: devono decidere da soli i loro i comportamenti perché non si può proceduralizzare tutto.

Ma si può almeno capire quali sono le determinanti dei comportamenti delle persone? No! Perché sono comportamenti emergenti e contestuali. E non causali.
In generale, una persona mette in atto i comportamenti che le permettono di realizzare il proprio progetto esistenziale. Ma, innanzitutto, non è dato sapere quale sia il progetto esistenziale delle persone. Poi, i comportamenti che una persona mette in atto dipendono anche dagli altri. Più scientificamente, dal contesto cognitivo, sociale ed antropologico in cui si trova.

Da ultimo occorre tenere presente un’altra realtà rilevantissima, forse quella che meglio caratterizza una organizzazione umana, come lo è una periferia organizzativa. Ogni organizzazione umana è caratterizzata da dinamiche auto evolutive non gestibili dall'esterno.

Ma cosa accade quando si cerca di governare utilizzando gli strumenti manageriali classici?

Formazione, “cantieri” di cambiamento
e attività di gestione delle risorse umane
sono “specializzazioni” che rompono l’organizzazione
in frammenti autoreferenziali

compromettendone efficacia, efficienza e sviluppo.

martedì 11 novembre 2014

Responsabilità sociale e Responsabili HR

di
Francesco Zanotti


Ma io che c’entro con la Responsabilità Sociale? C’entra solo qualcuno di noi a cui l’impresa ha affidato questa responsabilità. E se la cava facendo qualche iniziativa che si deve caratterizzare attraverso “mediaticità”.
Tu caro Responsabile HR c’entri perché sei tu che può fornire, o rifiutarti di farlo, alla tua organizzazione le conoscenze che servono a svilupparsi.
Puoi rifiutare oppure cercare e diffondere la conoscenza che spiega come la attuali organizzazioni non vengono governate. La conoscenza che può mobilitare la progettualità del top management. La conoscenza che evidenzia come le attività “direzionali” oggi giudicate più preziose (formazione e change management in testa) siano, in realtà, momenti di disgregazione dell’organizzazione. La conoscenza che serve veramente a proteggere le vite di chi lavora per la tua organizzazione.
La responsabilità sociale è principalmente tua. Perché tu puoi avviare, attraverso nuove conoscenze, una nuova stagione di sviluppo per la tua impresa ed alle persone che vi operano. Compreso quello sviluppo che significa salvare loro la vita. Oppure potrai rifiutarti di farlo. Ed è molto probabile che nessuno se ne accorga, che la tua carriera continui imperterrita saltando da una impresa ad un’altra. Ma, prima o poi, te ne accorgerai tu, magari guardando il mondo che stiamo lasciando ai nostri figli.



venerdì 7 novembre 2014

Concretezza auto difensiva

di
Francesco Zanotti


Il richiamo alla concretezza è una banale scusa per non pagare dazio.
Se si praticasse una sana concretezza i risultati che le  nostre organizzazioni ottengono sarebbero ben migliori. Se si praticasse sana concretezza si partirebbe da una precisa conoscenza delle nostre organizzazioni che, invece, oggi, da parte dei top manager, è praticamente nulla.
Che concretezza è quella che si esercita su qualcosa che non si conosce e che, dirigendo con concretezza, ci fa ottenere risultati che continuano a peggiorare?
Il richiamo alla concretezza significa solo … nella confessione di un manager …
“Sì lo so! Ci sono molte conoscenze che mi servirebbero, e che non uso perché non voglio fare la fatica di impararle. Ma non posso ammetterlo, altrimenti come giustifico il mio ruolo? Allora nego che le conoscenze servano. Mi trincero dietro la mia esperienza e il mio intuito. Sì so anche che anch'io uso una teoria sull'uomo e sull'organizzazione. Quelle cose che chiamo intuito ed esperienza non sono nient’altro che l’applicazione di una teoria inconscia, del tutto personale che ho sviluppato, inconsciamente e senza riferimento alle conoscenze esistenti. Mi rendo conto che uso una teoria povera e che non voglio sostituirla con una più ricca con tutte le mie forze. Non mi meraviglio più di tanto (anche se non lo ammetterò mai) che non riesco a conoscere l’organizzazione (o il pezzo di organizzazione) che guido e a governarla. Ma fino a che nessuno se ne accorge … ".
E, poi, accadono i drammi all'interno delle organizzazioni.


martedì 4 novembre 2014

I reduci

di
Francesco Zanotti


Non si spaventi il lettore, non intendo “celebrare” la Grande Guerra. Intendo parlare dei reduci degli interventi di formazione e di cambiamento. La parola “reduci” non è scelta a caso.
Ogni persona all'interno di una organizzazione vive all'interno di un micro enclave organizzativo che ha diverse dimensioni: cognitiva, sociale, antropologica. Quando qualcosa non va è perché queste enclave sono sconclusionate.
Per sistema le cose che si fa? Si prendono le persone, le si estraggono da queste enclave e le si buttano in enclave artificiali dove si costruiscono nuove cognitività, socialità, antropologie che sono artificiali come i gruppi che le generano.
Poi le persone tornano a casa, alla loro enclave organizzativa “naturale”. E che accade? Che il capo si attende che queste persone siano “sistemate”, siano trasformate in modo che non facciano più danni, ma cooperino etc. ma questo non può accadere. Le persone non sono ingranaggi da rettificare. Gli interventi di formazione e cambiamento hanno arricchito le persone di una esperienza che non può essere in nessun modo finalizzata. Introducono entropia. Il capo trova persone diverse che hanno tanta difficoltà ad inserirsi nell'enclave organizzativo di partenza come i reduci di una guerra nella società in pace.