"Non è la mente l'origine dell'uomo, sono le passioni che originano tutto, anche il pensiero. E' il sentimento il seme dell'uomo, sono l'amore, la passione." (M. Tobino)
E' "vero" tutto ciò che ci piace e che decidiamo insieme agli altri che sia vero

venerdì 28 marzo 2014

Un appello ai manager: confrontate, valutate i consulenti

di
Francesco Zanotti


E’ un appello accorato.
Il manager gestisce il sistema umano più complesso: una organizzazione. Non è il cervello umano l’oggetto più complesso dell’universo. E’ una organizzazione, perché è un intreccio di cervelli. L’organizzazione è di una complessità di ordine superiore rispetto a quella del cervello.
Per riuscire a gestire questa iper-complessità, occorre, come condizione necessaria, utilizzare il miglior patrimonio di conoscenze possibili: dalle nuove modalità di relazione tra l’uomo e il mondo che hanno scoperto la matematica e la fisica alle scienze cognitive su, su fino alla sociologia e all'antropologia. Occorre, poi, che queste conoscenze siano trasformate in metodi che possano essere utilizzati anche da chi non disponga nel dettaglio di tutte queste conoscenze.
Allora un manager deve scegliere tra metodi.
Come fare?
Confrontate le conoscenze che sono contenute in questi metodi. Cercate metodi che utilizzino tutte le conoscenze più avanzate che esistono nelle diverse aree disciplinari rilevanti. Verificate che siano metodi che integrino tutte le buone idee e le buone intenzioni sparse che, da sole, non possono diventare metodi, ma solo aspirazioni.
Non accettate mai affermazioni del tipo “Questo è il mio metodo!”. Non accettate mai che si spacci per scientifico il pensiero di qualche auto definito “guru”. Sarebbe come dare retta ad un fisico che dica: questa è la mia fisica. E credergli perché vi è simpatico o perché sa vendere bene.
Chiedete conto del percorso e degli investimenti in ricerca che hanno generato il metodo proposto. Non accettate che un consulente non confronti i suoi metodi con quelli dei suoi concorrenti principali.
Sì, è davvero un appello accorato perché i manager non possono non garantire che le nostre organizzazioni utilizzino tutta la miglior conoscenza rilevante disponibile.


martedì 25 marzo 2014

Innovazione tecnologia uguale meno posti di lavoro?

di
Francesco Zanotti

Da un articolo del “MIT Technology Review” un tema emblematico: la tecnologia toglie posti di lavoro? Da sempre lo sviluppo tecnologico distrugge posti di lavoro nelle attività tradizionali, ma gli imprenditori riescono ad utilizzare le nuove tecnologie per avviare nuove attività che rilanciano l’occupazione. Oggi, dice l’autore, sembra che vi sia una discontinuità. L’innovazione tecnologica accelera la distruzione dei posti di lavoro, ma non appaiono proposte imprenditoriali nuove ed intense neanche per pareggiare il conto. Come risolvere questo problema L’autore dice che non lo sa …
A me sembra che, invece, la riposta sia semplicissima. Le potenzialità di avviare nuove attività sono sempre più complesse. Occorrono, allora, progetti d’impresa molto più articolati. Il problema è che agli imprenditori ed ai manager mancano le risorse cognitive per riuscire a formulare questi progetti d’impresa. Le risorse cognitive necessarie riguardano le conoscenze e le metodologie di strategia d’impresa che sono praticamente del tutto sconosciute, salvo qualche riferimento a Porter, oramai abbandonato dagli esperti. Oppure ad “Oceano Blu” che fornisce qualche suggestione, ma brilla per banalità: serve a vendere qualche corso di formazione. Non viene citato nei testi e nelle riviste professionali di strategia, non è utilizzato nella prassi di progettazione strategica.
La soluzione è quella di continuamente migliorare il patrimonio di metodologie e conoscenze di strategia d’impresa. E diffonderle presso manager ed imprenditori.

Il problema delle risorse cognitive vale anche per altre sfide gestionali: la sfida del Change management, ad esempio. Anche qui la si affronta “dimenticando” troppe risorse cognitive: dalle scienze cognitive, alla sociologia alla antropologia. Se si provasse a confrontare le attuali prassi di Change Management con questa conoscenze si scoprirebbe che la nozione stessa di Change Management non sta in piedi.

sabato 22 marzo 2014

Costruire quotidianità

di
Francesco Zanotti
Come i lettori di questo blog sanno, io sostengo che l’organizzazione informale è il sistema nel quale emergono i comportamenti. Se si vogliono governare i comportamenti occorre governarne i processi di emergenza.
Stamattina leggevo un libro che apparentemente non c’entra nulla con questi temi Inventare il mondo di Jaques Lévy e altri, edito da Bruno Mondadori. E’ un libro di geografia, anche se intesa in senso nuovo.
Arrivato all'ultimo capitolo ci trovo descritto un fenomeno umano che ha un profondo significato organizzativo. Che mi ha suggerito un nuovo modo di guardare alla organizzazione informale ed alla sua assoluta rilevanza. In quel capitolo si parla di situazioni in cui l’uomo viene oppresso da un potere soverchiante: i campi di concentramento nazisti. Nonostante questo potere che sembra non lasciare scampo, l’uomo riesce sempre a ricostruire un proprio quotidiano di libertà. La citazione d’obbligo è il famoso libro di primo Levi: Se questo è un uomo.
Ora, certamente l’impresa non esercita un potere di questo tipo sulle persone. Ma un certo potere sì: attraverso la sua dimensione formale. E di più, si cerca esplicitamente di governare attraverso la dimensione formale. Bene è necessario ricordare, per poter gestire organizzazioni, che le persone sono portare a costruirsi un proprio quotidiano (che io ho chiamato organizzazione informale) che è il vero ambiente cognitivo, sociale ed antropologico nel quale emergono i comportamenti.
Detto diversamente, teniamo tutti presente che i comportamenti delle persone sono indirizzati a questo costruire quotidianità e non a raggiungere gli obiettivi aziendali.

Il “maneggiare” non può che essere la capacità di far coincidere il costruire quotidianità con il raggiungere obiettivi aziendali.

giovedì 20 marzo 2014

Spending review: tecnica e politica?

di
Francesco Zanotti

Leggo sul Sole 24 Ore il punto di Stefano Folli dove sostiene che, sulla “Spending review” la “tecnica” ha dato il suo responso. Ora tocca alla politica tenerne in conto o meno.
E, così, traspare in filigrana che il problema sono quelli che in fondo la spending review non la vogliono, sindacati in testa.
Discorso scientificamente infondato.
Innanzitutto, non esiste tecnica senza politica. Ogni scelta tecnica (anche ogni teoria scientifica) è fondata su di una certa visione del mondo. Non è mai neutra. Anche nelle proposte di Cottarelli (che non ho visto, ma non credo possano sfuggire a questa “legge”) vi saranno scelte politiche.
E, poi, le proposte di Cottarelli possono essere solo politiche. La ragione è che, in questo caso, non esiste la tecnica. Si può parlare di tecnica quando si tratta di applicare una teoria. Bene, per Cottarelli la teoria di riferimento dovrebbe essere la (e non una, altrimenti ritorna in ballo la politica) teoria dell’organizzazione. Il problema è che una teoria completa dell’organizzazione non esiste.
Il fatto che non esista una teoria non permette di parlare di tecnica. Solo ed esclusivamente politica.


mercoledì 19 marzo 2014

PA: ingenuità strategico-organizzative

di
Francesco Zanotti


Leggo sul Sole di oggi l'articolo “Come riformare la dirigenza PA” di Renato Ruffini. Cosa c’è di ingenuamente sbagliato?
La prima cosa è il sottotitolo “Poche mosse per rendere più efficienti e competitivi i mestieri dello Stato”. Sì, lo so che la titolazione non è degli autori. Ma io non voglio prendermela con le persone, ma con il “non sense”. Quindi non ha importanza chi lo ha scritto. Sta di fatto che compare. E il lettore giudica tutto insieme: testo e titolo.
Perché questo sotto titolo non va? Perché non ha alcun senso chiedere che i mestieri dello Stato siano più competitivi. Con chi diavolo devono competere? Quali sono le forze competitive da contrastare?
L’occasione di questo sottotitolo è l’occasione per fare un discorso generale. Oramai “competitivo” e competitività” hanno acquisito il significato di “buono e giusto”. Per dire che una cosa è positiva, da farsi, gli si aggiusta addosso l’aggettivo competitivo o si dice che serve alla competitività.
Dobbiamo ricordare che “competitivo” nasce da uno schema di analisi strategica proposto da M. Porter nei primi anni ’80. Grazie ad una operazione brillantissima di pubbliche relazioni si è riusciti a imporre questo schema. Ma, innanzitutto, lo si è immiserito … Solo per fare un esempio: quanti ricordano che i “competitors” non sono solo i concorrenti, ma anche i fornitori, clienti, i prodotti sostitutivi, gli entranti potenziali? Oramai i Competitors sono solo i concorrenti. E, poi, come si è detto si sono trasformate in concetti valigia “competitivo” e competitività”.
Ma il grave non sta solo qui.
Più grave ancora è che è oramai assodato che lo schema dell’analisi competitiva è troppo primitivo.
La competizione non è nel mercato, ma nella testa. L’obiettivo del vantaggio competitivo è irraggiungibile.
Il lettore incredulo legga questo pezzo apparso su Forbes:


E l’articolo vero e proprio? Il post sta diventando troppo lungo. Solo un accenno, poi, approfondiremo se a qualcuno interesserà. 
Si propone che sia possibile riformare la Pubblica Amministrazione (che è una organizzazione come le altre) basta cambiarne la dimensione formale. 
Errore scientifico drammatico. 
La qualità della Pubblica Amministrazione dipende dalla qualità della sua organizzazione informale. Essa emerge autonomamente dalla interazione delle persone. L’organizzazione formale è solo lo strumento di questo relazionarsi. Per aumentare la qualità della organizzazione informale occorre attivare una auto riprogettazione della organizzazione informale. Invece di giocare con lacci e lacciuoli, premi e punizioni.


lunedì 17 marzo 2014

L’importanza delle scienze cognitive

di
Francesco Zanotti


Tutti conoscono i neuroni a specchio. Essi rivelano la capacità del cervello di “risuonare” con un interlocutore esterno. Ma la storia non finisce qui. Se considerate la teoria quantistica della mente di Giuseppe Vitiello scoprirete che questo risuonare è molto più profondo. Come se il cervello proiettasse se stesso nel mondo: il Doppio, dice Vitiello. E giudicasse se la proiezione gli piace. Se gli piace, allora, emerge un giudizio etico ed estetico positivo.
Il proiettare se stesso è realizzare il proprio progetto esistenziale.
Bene e questo cosa c’entra con la gestione delle persone e delle organizzazioni? Quasi tutto.
Quando assegnate un obiettivo e un ruolo ad una persona è necessario capire se il raggiungere questo obiettivo, interpretare questo ruolo può essere inteso da una persona come strumento (il raggiungere l’obiettivo) e luogo cognitivo, sociale ed antropologico (il ruolo) per realizzare il proprio progetto esistenziale. Non aspettatevi di convincere le persone con convenienze, lusinghe o minacce.
Fatemi fare un solo esempio, in un campo dove la convenienza personale è altissima: la sicurezza sul lavoro. Ne può andare della vita.
Allora tutti dovrebbero razionalmente perseguire la sicurezza. E, invece, no! Tutti perseguono la realizzazione del proprio progetto esistenziale. Se questo va a scapito della sicurezza, tanto peggio per la sicurezza. Un esempio nell'esempio: chi si autorealizza raccontando come è scampato ad un rischio, chi mostra con orgoglio le ferite, chi cerca di negare a se stesso, addirittura, di essere sul posto di lavoro, usando lo stesso comportamento distratto e superficiale di chi, invece di lavorare in un ambiente carico di pericoli stia passeggiando su di un prato fiorito.


giovedì 13 marzo 2014

Assessment, ma perché?

di
Francesco Zanotti


Se andate da un medico, desiderate fortemente che sia aggiornato sullo stato dell’arte della scienza medica. Vi aspettate, almeno, che abbia fatto l’esame di anatomia e non dica: mi sono costruito io una mia conoscenza anatomica attraverso la mia esperienza medica.
Quando si parla di temi manageriali, invece, si ha proprio una pretesa simile a quella di chi pretendesse di fare il medico senza studiare l’anatomia. Le attività di assessment sono un caso esemplare.

Io credo che un assessment di un sistema umano (soprattutto di una intera organizzazione) sia insensato. Perché produce un risultato che non è una stima, valutazione dell’organizzazione, ma solo uno scombussolare prolungato (senza sapere cosa questo scombussolamento comporta) dell’organizzazione.
Ecco, ho sbagliato. Non sono io che credo! A qualunque branca della conoscenza rilevante (La fisica per capire cosa vuol dire valutare, misurare. Le scienze cognitive e le neuroscienze per capire come “funziona” il pensare. A un livello più alto, le diverse psicologie. La sociologia e l’antropologia. La filosofia e i processi ermeneutici) guardi, ho una conferma che il fare l’assessment di una organizzazione è una cosa insensata.
Allora i casi che mi vengono in mente possono essere i seguenti. O qualcuno sostiene che tutte queste aree di conoscenza sono un cumulo di sciocchezze. Oppure si smette di fare assessment.
Non accadrà nulla di tutto questo. Si continuerà a fare assessment senza curarsi delle evidenze scientifiche che nessuno ha voglia di approfondire. Ci si coccolerà nell'illusione che il management si possa occupare di uomini e organizzazioni senza considerare le aree di conoscenze che si occupano di uomini e organizzazioni. In realtà, così facendo si crea una conoscenza manageriale condivisa che professa una propria fisica, neuroscienza, psicologia, sociologia, antropologia.
Come il medico che pretendesse di costruirsi una propria visione dell’anatomia.

Come mi piacerebbe un bel dibattito con qualcuno che fa assessment. Ma non due battute o qualche polemica via web. Mi piacerebbe un dibattito vis a vis davanti ad un pubblico. Tutti i manager dovrebbero desiderare di assistere a questo dibattito … 

domenica 9 marzo 2014

Valori aziendali o tratti di penna?

di
Francesco Zanotti


Scriviamo ben chiari i valori aziendali e poi comunichiamoli. Ma siete sicuri che questa operazione abbia senso o, piuttosto, non sia che una una illusione rassicurante?
Secondo quanto conosciamo sull'essere umano, è una operazione senza senso. Rimane un mito manageriale che sta in piedi fino a che non si esplorano ad esempio, le scienze cognitive.

Un valore è un giudizio emergente che compare (emerge come costrutto mentale) in una persona quando si relaziona con il mondo. E dipende dal sistema cognitivo di cui questa persona dispone.
Il valore, quindi, non è un oggetto trasferibile da una mente ad un’altra.

Quando voglio comunicare un valore (magari con la pretesa che sia prescrittivo) che faccio? Mi illudo, invece, di trasferirlo, proprio come se fosse un oggetto. E mi aspetto che il ricevente lo usi (lo metta in pratica) come io desidero.
Invece, non lo posso inviare telepaticamente, ma devo, invece, ad esempio, scriverlo. E già lo scriverlo lo trasforma
Infatti, cosa significa scrivere? Condensare un costrutto mentale sulla carta. Questo condensare dipende dalle potenzialità della carta e dal mio sistema cognitivo. Detto diversamente, il costrutto mentale, diventando carta, utilizza il mio sistema cognitivo (che non è infinito) e si esprime con le potenzialità che mettono a disposizione carta e calamai. Se, invece, è un file word … non cambia quasi nulla. Insomma, il tratto di penna non è una fotografia della mia mente.

Ora il valore diventa operativo quando diventa costrutto mentale di chi lo riceve. Bene, la ricezione è un’ulteriore trasformazione. Quando il ricevente legge la carta, scatta un processo di interpretazione che dipende (almeno) dal suo sistema cognitivo che assume forme diverse a seconda delle contingenze esterne. Quindi capirà fischi per fiaschi. Fischi sono quello che mandate che, già, non è quello che pensate.

Allora se proprio volete, mandate in giro pezzi di carta con scritte parole che considerate valori. Ma non aspettatevi che vengano messe in pratica come pensate. Quel pezzo di carta gira per l’azienda e genera conversazioni senza fine che modificheranno i comportamenti in modi che non sono prevedibili.

Ha proprio “senso” continuare ad utilizzare pratiche che non possono ottenere quello che ci prefiggiamo perché partono da una idea di uomo che valeva, forse, due secoli fa?
Ha proprio senso continuare a combattere contro la conoscenza?



venerdì 7 marzo 2014

Tagliare i dirigenti …

di
Francesco Zanotti


Intesa San Paolo ha deciso tagliare 200 dirigenti su mille.
Giusto il dialogo con il sindacato per limitare l’impatto sociale di questa decisione, ma non è di questo che voglio parlare.
Voglio affrontare un tema difficile, ma non eludibile.
Se un dirigente viene considerato un esubero, significa che la sua azienda lo giudica inutile.
Può darsi che si sbagli, può darsi che ci siano ingiustizie, ma occorre anche guardare da un’altra parte.
Cosa hanno fatto questi signori per diventare indispensabili? Dobbiamo riconoscere che oggi il manager rischia di giocare soltanto in difesa: cercare di capire cosa vuole il capo ed assecondarlo. Oppure, ad un altro livello: cercare qualche cordata politica.
Allora dobbiamo adottare metodi di valutazione della performance? 
No, perché sono, scientificamente, stupidaggini. E sono assolutamente soggettivi.
Io suggerisco una via “imprenditoriale”. Ogni manager dovrebbe diventare un campione di innovazione nei metodi di governo. E non solo all'interno, ma anche all'esterno dell’impresa. Lo strumento per diventare campione di innovazione è quello della conoscenza. Ed è uno strumento facilissimo da usare. Perché le conoscenze e le metodologie di management sono diventate una serie di banalità così banali che basta guardare alle conoscenze proposte dalle scienze umane e naturali per trovare mille spunti di innovazione.
Cercare innovazione profonda (non il giochetto stupidello dell’americano di turno o dell’amico consulente) a livello internazionale e sperimentare. Studiare e sperimentare. Oppure diventare esuberi.


martedì 4 marzo 2014

Ogni corso: una competenza, una organizzazione diversa …

di
Francesco Zanotti


Dopo una analisi delle esigenze formative durata due mesi Giovanni si trova a dover seguire due corsi: uno per competenza. Ecco, l’analisi delle esigenze formative ha mostrato che Giovanni avrebbe avuto bisogno di acquisire altre competenze. Ma il tempo è tiranno: Giovanni deve anche lavorare non può mica passare tutto il suo tempo in aula. E il Gran Capo ha deciso per quelle due … Forse è stato un po’ troppo spiccio … Era anche stato un po’ disattento durante la presentazione dell’analisi delle esigenze (detto tra di noi: il responsabile della formazione gliel'aveva quasi imposta). E, poi, a metà si è assentato delegando allo stesso responsabile della formazione la continuazione della riunione. Dalla riunione era uscito un programma coerente con l’analisi delle esigenze. Ma il Gran Capo è stato inflessibile (in questo, forse è stato troppo spiccio): “Non mi potete allontanare per così tanto tempo Giovanni (i tanti Giovanni) dal lavoro. E, poi, il programma che avete fatto costa troppo!”.
E così Giovanni si è trovato a dover fare quei due corsi …
Il primo pensiero di Giovanni: “Due mesi di analisi per concludere che sono un gap … Mah ...
Va beh, andiamo a questi due corsi.”. Chissà se avesse saputo che era stato giudicato molto più gap di quello che gli hanno detto. Sì, nessuno gli ha detto tutto quello che era uscito dall'analisi delle esigenze …

Il primo corso ha riguardato la leadership. Vi era un docente molto bravo e compagni con i quali si è trovato subito in sintonia. E’ stata una esperienza molto intensa. Piano piano Giovanni è riuscito a sentirsi leader. Sia pure a turno. Sì, era un’esperienza di formazione attiva, dove si faceva piano piano emergere il leader che era in ognuno dei partecipanti. A turno, ovviamente.
Dopo il corso Giovanni è tornato al lavoro … E si è subito perso. Le persone che doveva guidare non stavano seguendo un corso, ma stavano facendo un lavoro faticoso, anche pericoloso … Non reagivano come i compagni di corso. Quando cercava di mette in atto quelle tecniche le piccole e grandi furbizie che funzionavano così bene nel corso, non funzionavano mai! Pensa Giovanni: “Certo se al mio posto ci fosse quel docente: lui si che saprebbe come fare … Lui sì che sarebbe il leader che serve … “.
Giovanni aveva appreso a fare il leader in vitro. Pensava (altrimenti perché gli avrebbero fatto fare il corso?) che sarebbe riuscito a tenere a bada il gruppo di operatori che gli era stato affidato e, invece, si stava convincendo che il leader avrebbe dovuto farlo qualcun altro.
Intanto il Grande Capo, che si era dimenticato del corso, aveva cercato Giovanni perché si fidava solo di lui per quella cosa particolare. Non l’ha trovato ed è andato su tutte le furie. Ha immediatamente impedito a Giovanni di seguire il secondo corso ...
E Giovanni, a cui non era stato detto quale altro corso avrebbe dovuto seguire, ancora si chiede che gap si sta portando dietro, di che gap soffre, senza saperlo.
Fine della storia. E’ stata una parodia forzata? No! Dietro la parodia ci sta un discorso scientificamente fondato. In sintesi (i dettagli a chi li chiede).
Nell'ordine ...
Credo sarebbe meglio non considerare più le persone gap.
Credo sarebbe meglio non fare più corsi di formazione manageriale. Cioè di creare organizzazioni virtuali che vivono solo il tempo del corso e immaginare che “competenze” sviluppate in contesti virtuali possano essere trasferite nei contesti organizzativi reali.
Non pensate che il Gran Capo era distratto perché poco sensibile. Era distratto perché lui tutte queste cose le ha intuite …
E sta pensando che sono inutili anche cantieri e progetti vari …

Vorrebbe che tutto si svolgesse nel lavorare … E’ possibile, ne parleremo.

domenica 2 marzo 2014

Il circolo vizioso dell’esperienza

di
Francesco Zanotti


Lo strumento che una persona utilizza per interfacciarsi al mondo è costituto dalle sue risorse cognitive.

Quali risorse cognitive servono ad un manager o ad un imprenditore per riuscire a vedere, ascoltare e pensare intorno a tutto il mondo che deve governare? Nel nostro caso: l’organizzazione (formale ed informale), il mercato, la società nel suo complesso.

Deve conoscere le diverse visioni del mondo disponibili per riconoscerle nelle persone che gli si trovano di fronte. Deve conoscere come le persone pensano e si relazionano. Deve conoscere come dall’interrelarsi delle persone forma l’organizzazione e fa emergere nelle persone stesse competenze, sentimenti, emozioni e valori. Deve comprendere quali output genera un certo tipo di interrelazione tra le persone. Deve comprendere tutte queste cose anche nelle relazioni con l’ambiente esterno.

Dove si trovano queste risorse cognitive?
Si trovano in diverse aree di conoscenza: dalle scienze fondamentali (matematica, fisica e filosofia) che parlano delle visioni del mondo, alle scienze evolutive che raccontano come un sistema complesso evolve, alle scienze cognitive ed alle neuroscienze per capire le dinamiche di pensiero della persona umana, alla psicologia, sociologia e antropologia.

Se tutto quello che abbiamo detto è vero, queste aree di conoscenza non sono “nice to have”, non sono cultura generale che fa bene e far star bene avere. Sono conoscenze professionali indispensabili senza le quali il manager e l’imprenditore non riescono a vedere, ascoltare e pensare intorno ai mondi che devono governare. Rischiano di farsene immagini povere, soggettive e non condivise.

Ora, quale è il patrimonio di risorse cognitive oggi a disposizione del manager?